mercoledì 25 novembre 2020

La Fioritura -LX-

 Se il vecchio aveva nutrito delle speranze per i suoi discendenti, giorno dopo giorno esse lo delusero. La razza dell'uomo era facile alla malattia, all'infortunio, alla morte; e quanto più questo diventava evidente, tanto meno uomini e donne riuscivano a onorare i precetti dei loro creatori, ché ordine e disciplina erano scomodi a esistenze fragili. Dunque assecondavano i loro stomaci ben oltre l'appetito, i loro lombi a prescindere dal desiderio, e per quanto riguarda le mani, essi le vedevano sempre misere e vuote, blandendo in questo modo l'avidità tipica dei Tenqar. Tutte queste cose il vecchio non potè vederle, giacché gli occhi aveva morti sul viso greve, ma se le faceva raccontare da Ulm'rahktan, che come lui mai si allontanava dal Trono Bianco.

"Un giorno ormai lontano, mentre io, gli schiavi e le loro compagne stavamo viaggiando verso il sole, sulla riva di un fiume vidi a un certo punto un fiore, tanto bello e rigoglioso che fui sul punto di versargli una lacrima; poi però mi accorsi che esso sorgeva in una piccola pozzanghera sul cui fondo si agitavano innumerevoli vermi. Allora ne versai due." raccontò il vecchio con asprezza "Indh ù 'igàn e le Ventisette Sale sono come quel magnifico fiore, e già vedo i vermi risalirne lo stelo. Dimmi, è questo il mio patrimonio?"

Il gatto restò seduto, osservando immagini visibili soltanto a lui. "Il fiore è bello nonostante i vermi. Anzi, lo è proprio in virtù di essi. Ma chi lo minaccia ha soltanto fame."

"Eppure i vermi non creano i fiori."

"Neanche tu." rispose Ulm'rahktan, asciutto "Ma so cosa vuoi dire. Se è la bellezza che adesso cerchi, essi già ne producono: non senti la musica dei loro tamburi nei giorni che hanno dedicato a te? Il tuo naso non percepisce i fumi dei loro pasti? E nemmeno ti rendi conto che quando sono insieme essi ridono, e cantano, e si raccontano le storie della loro creazione e delle tue imprese?"

"Tutto ciò che sento è un insieme di nomi che non comprendo. La loro lingua non è più la mia. Come mi chiamano?"

"I più giovani ti chiamano Qabanesh, "il caduto", perché la tua forma se la spiegano soltanto con una caduta da molto in alto; per i più maturi sei invece Manaroq, il "disceso" nella montagna; infine, Zeth Uawu vuol dire "trono bianco" ed è così che gli anziani ti identificano."

Così disse e il vecchio si placò, pur continuando a nutrire quei dubbi e quei sospetti che lo incupivano.

Il giorno della nascita della nona generazione di uomini, dal mare venne in visita a Indhogan la discendenza di Awyn: questi esseri minuti e dalla pelle bronzea, coi capelli crespi e gli occhi assai vispi, portavano in dono i frutti dell'acqua. In capaci recipienti vi erano pesci di ogni dimensione e colore, le cui squame brillavano al sole; attrassero l'attenzione dell'uomo con ricci e mitili, e infine li conquistarono con l'offerta di copiose quantità di perle e corallo. Per ringraziare fu indetta una festa, ché l'uomo per natura non ne era mai sazio, cui gli Awyn parteciparono con gioia. Le celebrazioni si consumarono in capo a sette giorni, al termine dei quali sui neonati fu imposta la benedizione del mare; poi, così com'erano venuti, i visitatori tornarono negli abissi e gli uomini che quel giorno li avevano conosciuti non li rividero più.

Il vecchio non tollerò che neanche uno tra gli stranieri fosse andato a salutarlo o a rendergli omaggio, ma Ulm'rahktan, che ormai aveva imparato a interpretare le sue espressioni, disse "Sono diversi da te, dai tuoi schiavi, dai Xish e dagli uomini. Sono creature semplici e giocose, la doppiezza dei Musubahe non gli appartiene, difatti credono che se non ti sei mosso dal trono è perché non avresti avuto piacere a conoscerli."

"E non hanno forse un signore cui obbedire?" protestò il vecchio, che era Manaroq, ma anche Zeth Uawu, ma in quel momento soprattutto Qabanesh.

"Hanno chi li ha generati. Awyn si è unita al suo maschio, cui ha infuso la vita e il nome di Llygaillachwa, che nella loro lingua significa "occhi di perla". Sono il padre e la madre di quella genia, amati fondatori, rispettati in quanto amorevoli."

Altri cicli passarono: gli uomini che avevano ricevuto la benedizione del mare crebbero e generarono dei figli, alcuni dei quali passarono questo dono ai loro successori e questi ai propri. All'alba della diciottesima generazione di uomini, i discendenti degli originari Doorlaq, i "baciati dalla spuma", si misero d'accordo per attuare un grande progetto e dopo aver convinto il resto del popolo essi lo realizzarono. In capo a qualche giorno, in Indhogan vi erano più canali di quante vene ci fossero in un uomo. Corsi d'acqua scorrevano tra le case e circondavano le Ventisette Sale, portando il mare là dove non avrebbe dovuto esserci. Questo però non irritò il vecchio, cui l'intraprendenza della razza umana iniziava a piacere.

Dai canali affiorarono gli Awyn e di nuovo fu celebrata una grande festa, finita la quale qualcuno di loro decise di restare a Indhogan, mentre qualcuno tra gli uomini prese le misteriose vie sott'acqua.

Venne la ventisettesima generazione di uomini e l'aria a Indhogan divenne carica di tensione. Il vecchio, che era preparato a quel giorno perché Ulm'rahktan aveva voluto che lo fosse, si alzò dal Trono Bianco e uscì dalle Ventisette Sale. Vederlo in piedi paralizzò gli uomini tanto quanto ciò che stava accadendo sopra le loro teste: una sfera di luce argentea campeggiava in un cielo terso, di un azzurro innaturale. Il vecchio non era però sorpreso, né turbato.

"Tu, che ti fai chiamare Manaroq, Qabanesh e Zeth Uawu, dicevi di aver compreso i Codici, ma gli atti tuoi e della tua discendenza ti tradiscono." dissero le due voci di Indh "Ora è tardi e subirai il mio tribunale. Sul Primo Codice: hai dato un nome alla terra, che già lo ha."

"No" rispose il vecchio "Ho dato un nome al palazzo e i miei discendenti lo hanno esteso alla comunità. Il nome è un omaggio a te, che ci hai concesso di stabilirci su questa isola."

Le due voci tacquero per un po', poi ripresero, più concilianti "Sul Secondo Codice: unendo con la forza i tuoi schiavi alle femmine Xish, hai loro imposto la copula."

"Gli schiavi non hanno volontà alcuna, né sentire, né pulsioni, ma sono nati per soddisfare le mie; e per quanto riguarda le Xish, ciascuna di loro ha scelto il proprio compagno nell'attimo in cui i loro piedi hanno toccato terra."

"Sul Terzo Codice" ripresero le due voci con ardimento "nella costruzione dei canali, l'Abbraccio è stato scisso."

"I canali portano l'acqua là dove la terra è asciutta, dunque l'opera non interrompe l'Abbraccio, ma lo estende."

La luce della sfera fremette e lampi improvvisi scaturirono dal suo centro. "Sul Quarto Codice: traviando la natura della tua discendenza, è stato loro insegnata una via per trascendere i limiti fisici della loro condizione. Essi infatti quando dormono non si limitano a riposare."

Il vecchio trasecolò, preso alla sprovvista, e in quel momento una voce spuntata dal nulla gli prestò soccorso, come da sempre faceva.

"Quest'accusa è rivolta a me," disse Ulm'rahktan "che agli uomini ho insegnato il sogno. Ora ascolterete le mie ragioni."

mercoledì 18 novembre 2020

La Fioritura -LIX-

Allontanandosi dal luogo che lo aveva visto perdente pur nell'ottenimento di ciò che voleva, il vecchio sentì su di sé attenzioni che lo turbarono, e le spalle curve e storte furono percosse da brividi. Non erano però gli sguardi dei suoi schiavi, le cui palpebre erano sigillate dal momento in cui Iskravul li aveva tratti dal fuoco della forgiatura; né le loro compagne, che essendo nuove a così ampi spazi senza alberi e a passeggiare anziché balzare, tutto osservavano fuorché lui, che su Ama Nundra Mun era la creatura più sgraziata e spiacevole. Stavano percorrendo una grande spianata di erba grassa e umida, accarezzata dal rumore degli insetti e di timide creature striscianti, ma benché fossero ormai molto lontani dal bosco dei Xish, l'ombra proiettata dall'albero dai fiori rosa ancora copriva il loro cammino. Quando finalmente ne uscirono, il vecchio fu liberato dalla cappa di disagio e allora seppe che gli sguardi malevoli erano venuti dai rami dell'albero, insieme all'ombra stessa, per ricordargli del patto che avevano stretto.

Camminarono a lungo, non avendo altro riferimento se non quello di evitare gli alberi e di non guadare i fiumi, ché il vecchio temeva di esserne travolto, e così si fece sera. La luna si alzò da dietro una collina e disse loro "Vi guido io", e il vecchio si fidò. Il giorno seguente, quando l'alba eruppe in gloria da oriente, il sole disse al vecchio "Raggiungimi" e l'altro, cui la luna aveva offerto un viaggio piacevole e privo di pericoli, a maggior ragione obbedì. Viaggiarono seguendo la luna di notte e il sole di giorno, e in capo alla settima alba si trovarono su una terra circondata dal mare, senza che il vecchio riuscisse a capacitarsi di come l'avevano raggiunta. Fu in quel momento, mentre i dubbi andavano formando il veleno nel sangue del vecchio, che le voci del sole e della luna formarono un coro e il coro disse. "In principio fui Indh, ora le mie due voci servono i Cinque Codici e così farete anche voi."

Tutto attorno il cielo si tinse di tramonto, nonostante il sole fosse appena sorto, e tale fu l'impatto di quel fenomeno che al vecchio sembrò che la luce stesse sanguinando. Rispose a Indh: "Enunciali dunque, i Cinque Codici"

"Primo: Ama Nundra Mun è il nome di ciò che state calpestando, avete calpestato e calpesterete, voi e i vostri discendenti. Il nome è uno e tanto vi basti. Secondo: ciò che unisce due entità si consuma nel sussurro che esse si scambiano. Terzo: l'acqua di Tlaotlican e la terra di Ama Nundra Mun si uniscono nell'Abbraccio. Mai nessuno osi dividerli. Quarto: la vita è soggetta a natura. Quinto: nel nome di Ar Tlanèrva vi è il Codice che unisce i Codici. Non lo invocate e non fatene effige."

Il vecchio, che aveva ascoltato in silenzio, alzò lo sguardo ai cieli grondanti di rosso e promise di aver capito. Dunque tornò il sereno azzurro del mattino, il vento e il rombo del mare sostituirono le due voci di Indh, e il vecchio si trattenne a godere della rinnovata quiete. Quando fu sicuro che non avrebbe ricevuto altre visite, e che dall'ultraterreno non sarebbero scesi altri moniti, tosto ordinò ai ventisette schiavi di costruire una dimora che fosse degna del suo potere e delle sue ambizioni, dotata di un trono confertevole e riccamente ornato. Questo ordinò e quelli eseguirono. Con le mani robuste scavarono nella terra e frantumarono la roccia, estraendone pietra e calce e marmo che caricarono sulle spalle possenti. Seguendo le istruzioni del vecchio, che aveva la scintilla di sua madre Tenqar nel sangue, eressero le fondamenta e su di esse stesero un pavimento di basalto; scolpirono i pilastri marmorei e li disposero nella sala a formare un cerchio, a imitazione del sole e della luna. Poi ciascuno degli schiavi tracciò il proprio spazio e così sorsero le Ventisette Sale, dove la discendenza del vecchio sarebbe stata concepita. Alla fine dell'opera, tutto fu coperto da tetti spioventi e arricchito di porte e lucernari, dunque venne il tempo di sugellare la dimora col suo pezzo più pregiato: i ventisette schiavi portarono il trono in pietra calcarea che avevano scolpito assieme, di un bianco abbacinante, e lo posero al centro della grande sala. Sul pavimento di nero basalto la sua luce parve farsi ancora più violenta, e il vecchio senza attendere oltre vi prese posto. Il suo pallore si perse nella pietra, che a sua volta era tributo non soltanto al sole e alla luna, ma anche al fiume di latte nella montagna nera, al cui corso si era affiancato per completare la discesa.

Al centro dell'isola sorse dunque il palazzo delle Ventisette Sale, ma il vecchio lo chiamò Indh ù 'igàn, "le voci di Indh".

Dal trono accecante, ordinò poi agli schiavi di accoppiarsi con le loro compagne e questo diede origine alla prima generazione di creature assai particolari: questi esseri erano più chiari dei padri e assai meno scuri rispetto alle madri; gracili, chiassosi alla nascita, bisognosi di cure continue, sortirono nel vecchio sentimenti di delusione e ribrezzo. Accanto al trono vi era però Ulm'rahktan, sornione come solo un'incarnazione della notte è capace di essere.

"Essi cresceranno."

"Se anche crescessero fino a toccare con la punta del naso la vetta del mio palazzo," protestò il vecchio "già a guardarli prevedo che non saranno mai belli come le loro madri, né forti come i padri"

Ulm'rahktan lo guardò "Tu non sei nessuna delle due cose, eppure vivi in un palazzo e siedi su un trono."

"Dici bene" ammise il vecchio, e attese. Anno dopo anno, la discendenza crebbe in vigore e bellezza fino a raggiungere le dimensioni di chi li aveva generati. Dalle madri impararono la lingua Xish e l'arte della caccia, dal vecchio la lingua di Tenqar e le tecniche di costruzioni. Dai padri, soltanto a obbedire al Trono Bianco. Le due lingue furono poi unite a formarne una tutta loro, tale che Indh ù 'igàn divenne Indhogan, che da quel momento non indicò soltanto il palazzo delle Ventisette Sale, ma anche le dimore che i discendenti si costruirono attorno a esso. Questa fu l'alba della razza dell'uomo e Indhogan la sua culla.

mercoledì 11 novembre 2020

La Fioritura -LVIII-

 Le parole del vecchio non potevano essere comprese dalla genia di Xish, ma l'intervento di Ulm'rahktan fece in modo che ciò potesse avvenire. Parlando nella lingua che Mamath gli aveva insegnato, e che lei a sua volta aveva bevuto dal Raama Toi, garantì che tutte le orecchie recepissero lo stesso messaggio, ma pulito dal comando che il vecchio gli aveva impresso. Allora si alzò un velo di vento e tutto quello che avveniva sui rami e al riparo del fogliame fu coperto. Quello era il segnale per l'inizio di un consulto tra Gan Haji e Musubahe, perché se c'era qualcosa cui tenessero almeno quanto la vita sugli alberi, essa era la segretezza. Quando il vento si placò, il maschio e la femmina del Samenaka alzarono di concerto lo sguardo ai rami sopra di loro, poi dissero qualcosa tenendo la voce molto bassa.

Ulm'rahktan lo tradusse al vecchio: "Avrai ciò che hai chiesto, in nome del sangue che ci accomuna. Ma la tua discendenza si tenga lontana dai boschi, le foreste e le giungle del mondo."

Al vecchio parve intollerabile di essere minacciato e fu sul punto di scatenare i suoi schiavi, ma la chiosa di Ulm'rahktan lo fermò "Questa non è una trattativa. Prendi ciò che ti offrono."

L'altro non si convinse del tutto, quindi parlò la piccola Yu Zi, che diversamente dai suoi simili aveva la pelle color della resina, anziché scura come corteccia, e i capelli ramati come scorza di castagna. "Perché non hai fiducia?"

"Perché loro mi temono, dunque cercano di trarre un vantaggio dalla mia pretesa. Se accettano di darmi le loro femmine, allora che sia io a sceglierle." rispose il vecchio.

Yu Zi scosse la testa, e anche allora non smise di sorridere. "Per sceglierle hai bisogno di vederle, e per farsi vedere devono scendere dagli alberi. Ma noi non scendiamo dagli alberi, se non per cacciare e per il Samenaka. Chi per altri motivi abbandona gli alberi, non può più tornare indietro. Per questo, non puoi sceglierle tu."

Una volta che Ulm'Rahktan finì di tradurre, il dito rattrappito tremando la indicò "E tu, allora?"

La piccola capì il senso della domanda senza bisogno dell'aiuto del gatto, cui rivolse un cenno d'intesa.

"Di lei non ti dovrai preoccupare" disse Ulm'rahktan "come te, non fa più parte della genia da cui discende. Se questa affinità per te non è sufficiente, allora pensala come un'estensione del tuo potere e rivolgila verso i tuoi scopi."

Il vecchio capì. "Allora sceglierà lei le femmine" disse, e siccome il gatto tacque continuò nella sua asserzione "ma se ella è una reietta, non le obbediranno"

"Come ho detto, di lei non ti dovrai preoccupare"

Arrivati alla sintesi, il loro accordo mosse Yu Zi tra le lame di luce lunare che a malapena si facevano largo attraverso il fitto fogliame della foresta. Sotto l'albero dei Musubahe, scandì a voce alta ventisette parole, che erano i nomi delle ventisette femmine scelte per accontentare le ambizioni del vecchio. Una dopo l'altra scesero a terra, e ignorando Yu Zi si diressero incontro ai ventisette schiavi, scegliendoli con scrupolo come propri compagni. Ben più alte di loro, davano però l'impressione di essere leggere e fragili come illusioni. Il vecchio le guardò come si guarda un miracolo, senza poter reprimere il germogliare di una terribile invidia. Ma Yu Zi era di nuovo al suo fianco, sempre veloce nel pensiero e nelle azioni, e gli strinse la mano debole e fredda.

Lui fissò quel poco che di lei riusciva a vedere. "Ora che ho quello che volevo, voglio qualcosa di cui non credevo di aver bisogno" le disse. "Condividerò il potere con te, se tu verrai con me"

Stavolta, Yu Zi rise in maniera diversa, perché la gioia aveva lasciato spazio all'irrisione. Al vecchio questo non piacque e Ulm'rahktan lo apostrofò "Ti avevo detto di non preoccuparti di lei."

Il gatto poi tese l'orecchio a una brezza leggera proveniente dalla foresta, quindi annusò l'aria alla ricerca di altre sfumature. "I Musubahe ti invitano ad assistere al rito della Samenaka."

Tronfio della vittoria e di quello che sembrava un riconoscimento di superiorità, il vecchio accettò la richiesta e guardò là dove ancora stavano il maschio e la femmina del rituale. Essi, come riprendendo una danza da dove era stata interrotta, insieme percorsero la distanza che li separava dal tronco dell'albero dai fiori rosa. Al loro approssimarsi, su di esso si aprì una fessura molle e traslucida, come se non fosse stata fatta di rigido legno, ma di carne. Solo a quel punto, il maschio si tolse il manto di pelliccia e lo pose sulle spalle della compagna, come tante generazioni addietro aveva fatto il maschio di Xish. Consumato il rito, entrarono nella fessura e una volta dentro ne vennero ricoperti per intero, e il tronco tornò ad avere la forma e consistenza che lo accomunava a tutti gli altri alberi. Quello era il Samenaka, la "semina" secondo la genia di Xish.

"Tra qualche tempo," disse Ulm'rahktan al vecchio, che non riusciva a riaversi dalla meraviglia "l'albero fiorirà, poi verranno i germogli e infine i frutti. Quando essi saranno maturi, in estate, cadendo a terra si apriranno e dal loro interno sorgerà una nuova generazione. Così si perpetua la genia di Xish. Così le foreste e i boschi e le giungle saranno popolati."

A quelle parole, il vecchio capì che non avrebbe mai potuto espandersi come e quanto loro, e comprese di conseguenza per quale motivo lo avevano invintato ad assistere al Samenaka. Ora che infatti la frustrazione, il senso di impotenza e inferiorità gli avevano in egual misura appestato il sangue, il sacrificio delle loro femmine era stato ripagato. Si volse come una furia, accompagnato dagli schiavi e dalle nuove compagne. Senza attendere Ulm'rahktan, presero la direzione a meridione, verso lande più calde, dove i suoi piani sarebbero stati approntati.

mercoledì 4 novembre 2020

La Fioritura -LVII-

 Il vecchio e Ulm'rahktan si incontrarono all'ombra del grande albero dalle rosee fronde, lì dove Mamath aveva ingannato gli uccelli benedetti da Drà, e dove poi, molto tempo più tardi, Xish e il suo maschio si erano uniti dando origine alla propria genia. Il gatto accennò agli alberi dietro di lui e avvertì che i Gan Haji, i "senza ali", li avrebbero osservati da lì in avanti. Dunque il vecchio passò tra gli ampi tronchi con una reverenza di cui non si credeva capace, approfondita dalla stortura del corpo, ma smorzata dalle occhiate che lanciava rade verso l'alto. Mentre lo precedeva, Ulm'rahktan raccontò di Xish, sorella di Tenqar che come lei aveva costruito un simulacro consacrandolo alla notte. Non lo disse per ferire e difatti il vecchio non ne fu ferito, ché ormai senza legami. Quando arrivarono dinanzi a un grande tronco chiaro, dalla corteccia stillante resina e le foglie sottili e tonde in punta, Ulm'rahktan disse che quella era la casa dei Musubahe, perché "annodato" portavano il crine nerissimo e alto sulla testa in complessa acconciatura. Essi detenevano l'onere di assegnare un luogo alla nascita di ogni nuovo albero, quindi la funzione che esso avrebbe espletato per la comunità e infine un gruppo di Gan Haji preposti a custodirlo. Il bosco cresceva secondo il loro volere, ma assecondando il respiro delle stagioni, sicché non nascevano più alberi di quanti la terra potesse nutrirne, ma accelerando lentamente questo avveniva con costanza.

Al desiderio che il vecchio espresse di conoscere i Musubahe, la risposta di Ulm'rahktan fu perentoria: "Questo popolo scende dagli alberi soltanto per cacciare, arte in cui sono e saranno ineguagliati, e per il rito del Sanemaka, che avverrà stanotte."

Alché deluso e amareggiato, il vecchio gli volse le spalle e riprese la direzione da cui era venuto; avvenne però che quando aveva quasi raggiunto i suoi ventisette schiavi, che lo avevano atteso fuori dal bosco, una creatura bassa e minuta gli si fece incontro sbucando da dietro il tronco del grande albero dai fiori rosa. Essa lo guardò con un'espressione che il vecchio non aveva mai visto, e a cui, scoprendosi vulnerabile, reagì ordinando agli schiavi di ucciderla.

"Lei è Yu Zi" disse Ulm'rahktan, venendo dal nulla come il suo nome prescriveva. "significa "lì a terra" nella lingua dei Gan Haji. La spregiano così, appellandola come per indicare un sasso, o una foglia secca. Odiano il suo essere legata al suolo, invece che alle alte fronde dove il resto del suo popolo ama vivere."

"Perché mi guarda in quel modo? Sta forse esercitando un sortilegio?" chiese il vecchio, che a malapena riusciva a trattenere l'ordine dato ai ventisette.

"Ti sta sorridendo. È un uso soltanto suo ed è innocuo." spiegò il gatto, inclinando la testa verso il sole che stava tramontando a oriente. "Per ora."

Allora il vecchio alzò la sua unica mano e gli schiavi si fermarono senza sussulti, come steli di pianta all'alba, quando il vento ancora dorme. Zoppicando si avvicinò alla piccola e tuttavia non le parlò, non soltanto perché era sicuro che non potesse capirlo, ma soprattutto per via di quell'espressione che ancora lo turbava. All'improvviso sospettò che Ulm'rahktan gli avesse mentito e la rabbia lo assalì. Yu Zi mormorò qualcosa nella sua lingua, con la voce giovane e il tono scanzonato, per niente intimorita dal sinistro straniero.

"Chiede perché ti crucci, tu che sei potente" disse Ulm'rahktan.

Il vecchio rispose che gli era stata promessa una discendenza e che se non l'avesse ottenuta avrebbe fatto schizzare il loro sangue fino ai rami più alti, poi quegli alberi sarebbero caduti e la stessa sorte sarebbe stata inflitta ai Gan Haji e ai Musubahe. Promise rovina a quella terra e a tutte quelle intorno, fino ai limiti del conosciuto e oltre esso. Ebbro di livore proferì anatemi gonfi di oscenità e a un tratto ebbe a evocare il ritorno di X'En, la Fiamma Immortale che tutto il cosmo aveva quasi ridotto a sacra vampa, senza sapere come facesse a conoscerlo e perché il suo nome gli fosse saltato sulla lingua. Tutte queste cose Ulm'rahktan le tradusse a Yu Zi e lei ancora sorrise.

"Dice che se vuoi riprodurti, a momenti, quando la pupilla bianca sarà alta tra le stelle, sarà celebrato il Sanemaka."

Il vecchio osservò a lungo il gatto e seppe che non stava mentendo. Decise dunque di aspettare che arrivasse la sera e in particolare il momento che Yu Zi aveva descritto. Quando arrivò, il vecchio non ebbe nemmeno bisogno di guardare in cielo, perché ciò che stava succedendo tra gli alberi non poteva essere altro che qualcosa di unico. Ai piedi dell'albero dei Musubahe, stava una figura alta e snella che prese la carne del vecchio senza nemmeno accorgersi che egli esistesse. Bella oltre ogni misura, i lunghi capelli neri la coprivano fino ai piedi e allungati erano gli occhi sotto la fronte ampia. Il vecchio la volle per sé e si mosse per andarle incontro, ma scorto un movimento tra gli alberi dietro la bella, subito si arrese: una figura altrettanto alta, se non di più, occupò il nastro di luce lunare insieme alla femmina. Portava un manto di pelli di lupo, con due conigli sulle spalle e la candida pelliccia di una volpe bianca attorno al collo.

Yu Zi indicò la coppia e sussurrò al gatto qualcosa di inappropriato, ridendone subito dopo.

"Ti avverte che se non ti sbrighi a prenderla, il maschio la porterà nel tronco dell'albero dai fiori rosa e lì avverrà il Sanemaka"

Vista l'occasione, il vecchio fu sul punto di coglierla, ma un pensiero gli rosicchiò la testa ed esitò. Alzata allora la testa verso i rami, da cui ancora sentiva arrivare l'attenzione dei Gan Haji, disse ad alta voce. "Voi non mi avete salutato, benché io eserciti il potere. Ascoltate allora quanto ho da dire"

A queste parole la femmina e il maschio si voltarono, e dalle fronde del bosco scese un fremito nervoso, un bisbiglio indistinguibile dalla brezza.

"Datemi tante femmine quanti sono i miei schiavi, sì che il mio impero si possa imprimere sulla terra con una discendenza e un regno."

mercoledì 28 ottobre 2020

La Fioritura -LVI-

 Il giorno che Nilqa tornò dai suoi fratelli, essi non lo riconobbero. Decrepito era lo straniero ai loro occhi, torto come ramo nodoso e monco a destra. Una schiera di ventisette grigi esseri lo accompagnavano quieti, assuefatti all'obbedienza e sicuri nel passo pur avendo serrate le palpebre. Le generazioni di Tenqar li circondarono e si rivolsero al vecchio, giacché avevano riconosciuto in lui una guida.

"Perché vieni alle nostre dimore?" chiese qualcuno.

"Da quale sangue discendi?" chiesero gli altri, che erano la maggior parte.

Appesantito dalle spalle rigide, consumato in statura dalla pena e dalla deformità, il vecchio poté soltanto alzare lo sguardo verso le voci dei suoi consanguinei. Ne scrutò il vuoto, perché i suoi occhi erano stati spenti dal fuoco di Iskravul. Ma anche senza vederli, li sapeva giovani e forti e per questo li detestò. Il suo risentimento coprì l'ultimo guizzo di intelligenza con un velo che sarebbe da allora divenuto eterno sudario. "Miseri" sibilò "coloro che non riconoscono un fratello. E misero me, che vi conosco oggi"

Allora, mentre lo sconcerto soffiava di bocca in bocca, Nilqa sussurrò qualcosa di losco alle orecchie dei grigi e questi subito si mossero. Come un sol corpo strapparono le teste dai figli di Tenqar, deponendole ai piedi del loro padrone mentre gli altri correvano a chiudersi nelle loro dimore. Non ci fu però rifugio tanto solido da non crollare, porta che non fu sfondata, supplica che venne ascoltata. Legati al sangue con cui erano stati temprati, i grigi portarono l'orrore sulle otto generazioni e la desolazione su ciò che esse avevano costruito. Infine, fedeli al loro mandato, trascinarono Tenqar e il suo maschio ai piedi di Nilqa, preso fino a quel momento dal placido contemplare della sua volontà.

"Cos'altro vuoi che non ti sia già preso?" pianse Tenqar, che parlava a Nilqa ma si rivolgeva agli occhi vitrei dei suoi figli, le cui teste giacevano lì davanti impilate.

"Ho perso quasi tutto e sono il più potente tra i potenti del mondo." rispose Nilqa senza guardarla. "Ho perso quasi tutto, madre."

Tenqar dunque incanalò tutta la contrizione nella pronuncia del più penoso tra gli anatemi. "Perché i sette con cui sei venuto alla luce ora tu li hai distrutti, non sei più Uno di essi, e il nome che ti ho donato, io me lo riprendo."

Dalle labbra secche il vecchio espirò "Uno di sette" e da allora mai più lo disse né lo pensò, e tantomeno avrebbe permesso ad altri di farlo in sua vece. Restituito che ebbe il retaggio a sua madre, diede ordine ai suoi schiavi di uccidere lei e il maschio e quelli eseguirono nella connaturata brutalità, separandoli dalle teste intrise di paura. Così scomparve la genia di Tenqar e con essa la laboriosa fornace che aveva prodotto l'architettura di dimore robuste e tetti impenetrabili, fiore splendido nel giardino di un mondo giovane, ma appesantito e poi soffocato da infida malerba. Quando tutto fu silenzio e i muri delle grandi case scomposti tumuli sulla mattanza, il vecchio sentì farglisi vicino qualcuno, che non poteva essere uno dei suoi schiavi perché essi si muovevano solo quando lui lo comandava. "Cosa pensi?" chiese.

"Questo io lo avevo già visto, quindi vi ho creduto" rispose Ulm'rahktan "ma avendo adesso toccato, non posso dire di aver conosciuto."

Il vecchio ignorò le implicazioni di quei pensieri e disse "Tu e Iskravul mi avete rivelato che avrò discendenza. Mostrami come."

"Allontanati da questo luogo e continua a camminare. Quando sentirai di nuovo la mia voce, sarai arrivato."

L'altro obbedì a malincuore, perché sapeva di non avere scelta, e rimpianse il potere che ancora non possedeva. Si volse e intraprese il viaggio nella maniera in cui il gatto aveva precettato, senza farsi prendere da dubbi o reticenze, seppellendo le domande insieme ai rimorsi e alle memorie.

Lasciato solo all'incombere della notte, Ulm'rahktan produsse col suo canto un velo di pietà e con esso avvolse i corpi e le teste della genia di Tenqar. All'alba, il velo fu lacerato dai becchi di una torma di uccelli dal gracchiare vivace e lo sguardo intelligente, taluni interamente neri, altri invece imbastarditi da una chiazza bianca sul corpo; tutti erano l'incarnazione del momento più caro nella memoria di Ulm'rahktan, quando ovvero Mamath si era fatta corvo. Amandoli come aveva amato lei, insegnò loro il canto e la lingua dei dràna, ma per quanto ci provasse non riuscì a liberarli dall'appetito per il metallo, il cui lucore li attirava tra le macerie. Lasciandoli allora a conciliare la vecchia natura con la nuova, andò col pensiero là dove lui e il vecchio si sarebbero rivisti e in un attimo fu all'ombra del grande albero dai fiori rosa, circondato da altri alberi più bassi e tuttavia imponenti. Questi erano i palazzi del popolo dei Xish, e mentre dall'alto fogliame e dalle fessure nelle cortecce percepiva i loro sguardi più intensamente di uno scroscio di pioggia autunnale, da ponente scorse l'arrivo del vecchio e dei suoi ventisette schiavi.

mercoledì 21 ottobre 2020

La Fioritura -LV-

 Guidati da Iskravul, la cui chioma avvampava senza bruciare, Nilqa e Ulm'rahktan abbandonarono il campo di spighe e percorsero uno stretto corridoio di roccia calcarea costeggiato dal nulla, e al nulla diretto. Nel percorrere l'angusta via, Nilqa ebbe l'occasione per riprendere il controllo dei suoi pensieri e delle sue pulsioni, facendosi di conseguenza più fosco; tutto ciò che sarebbe stato da quel momento in avanti gli divenne chiaro. La risonanza del male appena gemmato rizzò i peli sulla schiena del gatto che lo precedeva innanzi, seguendo l'imperturbabile Iskravul nella tenebra ricacciata dall'avanzare del suo straordinario pallore. A un tratto, il buio si spalancò come una porta e rivelò il mondo che fino ad allora aveva nascosto: una distesa di ruggine e sabbia ospitava monoliti alti fino al cielo, popolato di stelle che avevano la forma e il colore del fogliame boscoso; al limitare di questa terra scorreva il fiume che Nilqa aveva sentito mentre scendeva la montagna, e che ai suoi occhi appariva bianco e denso.

"Cos'è quel fiume?" chiese, ignorato.

Iskravul poggiò un ginocchio in terra, affondò la mano nella sabbia e ne trattenne un pugno. Si avvicinò quindi a uno dei monoliti e lo percosse con la ruggine che aveva sottratto al suolo. A ogni colpo, il monolite si destava come da un sonno, e dalla pietra esalavano respiri incandescenti. Rapito e al contempo sconcertato da questo processo, Nilqa fu dilaniato tra la necessità di sapere e il desiderio di non mescolarsi a quella blasfemia, e dunque passò oltre per avvicinarsi a ciò che in principio aveva attratto i suoi sensi e che continuava a chiamarlo col tuono del proprio corso. Il fiume bianco scorreva con impeto nella valle rugginosa, incanalato verso una meta sconosciuta e tuttavia rispettoso dei suoi argini. Una volta sulla sponda, Nilqa ebbe molta difficoltà ad accovacciarsi per osservare il fiume da più vicino, ché le ossa gemevano ormai come legno marcio. Prima però che il dito avvizzito toccasse la bianca superficie, Ulm'rahktan lo interruppe chiamandolo piano. "Nilqa" disse "perché non credi a ciò che vedi?"

Nilqa annaspò con fatica, senza riuscire a tirarsi su né a chinarsi ulteriormente: "Al vedere, io credo. Al toccare, io conosco."

Allora il gatto inclinò la testa su un lato, osservandolo con stupore verace "Ma tu lo sai, figlio di Tenqar, che questo è latte. Lo riconosci dall'aspetto, lo senti dall'odore, eppure dubiti."

"Cosa c'è di male nel dubbio?" rispose il vecchio, i cui occhi mai abbandonavano il flusso del fiume "dubitare non ruba valore alla materia, ma le restituisce una promessa di prospettiva."

In quell'istante, fu come se tra gli occhi già prodigiosi di Ulm'rahktan se ne fosse aperto un terzo, quello che Mamath aveva fatto nascere e che in seguito alla di lei distruzione si era chiuso. Pur nel desiderio viscerale di rispondere, il gatto scoprì di non poterlo fare, perché il ricordo dell'amore pulsava ancora come carne lacerata e la mestizia gli aveva soffocata la voce. Così si limitò a osservare Nilqa nell'atto di toccare il latte, cosa in cui sarebbe riuscito se qualcos'altro alle loro spalle non si fosse imposto con forza. Prima li toccò una prepotente vampa di calore, poi una luce fredda invase terra e volta celeste rendendole sue pallide propaggini, tanto che financo il fiume latteo cessò di essere il pezzo più brillante di quel luogo. Iskravul aveva fatto del monolite una colonna di fuoco assai alta e vitale, e nel guardarla per il tempo di un battito di ciglia Nilqa aveva già perso parte della propria vista. Coprendosi gli occhi doloranti, si avvicinò al grande fuoco e chiese a Iskravul dove fossero gli schiavi promessi.

Il figlio di Vlada, che nelle iridi aveva sangue e fiamme in egual misura, guardava nel suo abbacinante monumento come Ulm'rahktan nelle tenebre. Prese poi la mano di Nilqa e lo forzò ad avvicinarsi alla luce, senza rispondere o pronunciare formule rituali. Per quanto però Nilqa cercasse di resistere, la sua miseria non gli permetteva di contrapporsi al potere di Iskravul, che senza sforzi gli spinse la mano nella colonna di fuoco. Il vecchio soffrì un tormento più intenso e feroce dello stesso braciere, gridò al cielo, pianse con amarezza e persino arrivò a pregare Iskravul di risparmiargli la pena, ché la ricompensa non ne era all'altezza; ma il figlio di Vlada attese fintanto che doveva, tenendo nel fuoco ciò che restava dell'arto finché non ci fu più nulla da bruciare e Nilqa cadde a terra, con un moncherino carbonizzato al posto del braccio.

La colonna di fuoco arse appagata, soffiando verso le stelle. Iskravul immerse le braccia in essa e dopo aver trovato qualcosa cui aggrapparsi, strattonò con tutta la forza di cui il suo corpo traboccava e dalle fiamme fu così estratto il corpo del primo schiavo. Egli era di un colore esangue, spento come metallo inerte, e gli occhi teneva chiusi perché non aveva ricevuto ordine di aprirli; non portava i segni del fuoco, né sul volto la sofferenza cui il suo padrone era invece soggiogato. Come lui un altro schiavo fu tratto dal fuoco, poi un terzo e altri ancora, e a ogni estrazione la colonna si abbassava e appassiva, diventando una languente brace poco più calda dei corpi che aveva forgiato, ormai moribonda quando l'ultimo degli schiavi fu estratto. Privato della luce delle fiamme, Nilqa si sentì circondato da sagome cui non riusciva a dare contorno né senso, e dunque si rivolse a Ulm'rahktan, che sapeva essergli vicino. "Chi sono questi che mi fissano senza guardarmi? Perché non hanno l'odore dei vivi?"

"Hai ciò che hai chiesto" rispose il gatto, provocando sul viso di Nilqa una contrazione orrenda.

"Perché mi hai ingannato, figlio di Vlada?" gridò Nilqa, deturpato tanto dalla rabbia quando dal dolore "Come farò a ottenere ciò che voglio senza la mia mano forte? E come farò a godere della mia opera, se a causa del tuo sortilegio non vedo più?"

Iskravul, che si era deterso il sudore dalla fronte per la spossatezza della forgiatura, non rivolse sentimento alcuno al povero vecchio che lo aveva apostrofato, ma parlò con la calma che era sua tempra e materiale, come il metallo lo era per le sue opere. "Ti ho dato ventisette schiavi, ognuno di essi dotato di ciò che tu ritieni io ti abbia sottratto. Soltanto la voce ti è necessaria per comandarli e quella la conservi insieme al senno. Tu sei invero la creatura che ha di più, e ti lamenti come se disgrazia fosse tua madre."

A quelle parole il querulante non osò contrapporre fiato: non un'altra lamentela o un doveroso ringraziamento, e nemmeno un commiato. Ordinò ai suoi servi di aiutarlo ad alzarsi e una volta in piedi si rivolse a Ulm'rahktan "Conosci la strada del ritorno?"

"La conosco" disse il gatto.

"Allora sono io a chiederti compagnia, questa volta"

"Segui il corso latteo, ma resisti alla tentazione di bervi." lo avvertì Ulm'rahktan.

A Nilqa quelle parole per una volta bastarono e le portò con sé, mentre il rombo del bianco fiume lo conduceva lontano dal luogo del suo supplizio. Una volta che fu distante, seguito da quelle mute ombre che erano i suoi schiavi, Iskravul si rivolse finalmente a Ulm'rahktan "Se egli possedesse il mondo, o se fosse capace di crearne uno di suo gradimento, poi guarderebbe alle stelle con stupore e invidia, e tutto ciò che fino a quel momento gli ha dato felicità e ricchezza diverrebbe polvere."

Il gatto tacque e Iskravul capì che non aveva nulla da obiettare, perciò continuò "Perché allora lo segui, maestro?"

La risposta di Ulm'rahktan si legò al suono dei passi lontani, restando viva mentre lui si confondeva alla tenebra. "Una promessa di prospettiva"

mercoledì 14 ottobre 2020

La Fioritura -LIV-

 Pur avendo da poco iniziato il viaggio insieme, Nilqa e Ulm'rahktan furono presto soffocati dalla ricchezza che il corpo della montagna ospitava, e che come essa traeva bellezza dalla sua natura immobile. Dapprima, siccome erano ancora alti, passarono tra due feritoie, poste agli opposti lati della scala, che scambiandosi aliti di vento dall'esterno sembravano produrre bassi bisbigli di segretezza. Nilqa cercò di carpirne i segreti, ma per quanto si sforzasse non era capace di tradurre ciò che sentiva, e dunque pur ammirando la perfetta casualità che aveva dato i natali a quel fenomeno, maledisse la volontà che aveva prodotto la luce tenendo all'ombra chi avesse cercato di carpirla. Questo lo fece ad alta voce, lamentandosi col suo silenzioso compagno di viaggio; Ulm'rahktan dal canto suo pensò che soltanto gli esseri incapaci di udire il Coro vedessero caso e volontà non soltanto uniti nel concetto, ma finanche dipendenti l'uno dall'altra, e provò pena per quella sofferenza.

La scala li condusse poi per un largo antro che assorbiva ogni rumore e in cambio dava ineluttabilità, senso di fine, come bocca di feroce creatura. Eppure, sebbene fossero arrivati assai lontani dalla sommità del percorso, dove la luce emanata dal sole di metallo andava spegnendosi, ogni forma aveva superficie visibile e angoli ben delineati. Nilqa ne fu contento, perché la vista gli era debole e i piedi malfermi, ma nell'attimo in cui l'equilibrio mancò strattonandolo verso il buio lato della scala, la mano si poggiò su una parete che fino a quel momento aveva creduto essere il vuoto. Ulm'rahktan notò la sua meraviglia e gli disse che un giorno i suoi discendenti avrebbero lavorato quel materiale, e che ciò li avrebbe arricchiti ed elevati; ma Nilqa capì di non poter aspettare, ché la scoperta doveva essergli subito assecondata e il possesso garantito. Allora Ulm'rahktan lo ammansì rivelandogli che quanto aveva bramato fino a quel momento, dal sole di metallo alle feritoie sussurranti, finanche alla scala declinante al misterioso fondale, erano artefatti il cui creatore giaceva al termine del viaggio. Rinfrancato dalla lieta novella, perché assai più preziosa dei tesori stessi, Nilqa proseguì la discesa senza altra rimostranza proferire, pur lanciando rade occhiate al sole di metallo, come un viaggiatore alla stella di casa, e tenendo la mano nodosa sulla parete che costeggiava la scala, quasi a sincerarsi che non fosse frutto di un'illusione.
Giù per la gola della montagna arrivarono ai suoi tetri intestini, dove il lembo di luce loro anfitrione spirò, lasciando al suo posto l'eco di un rombo gorgogliante e soffocato. Nello sconforto della cecità, Nilqa pretese di sapere da Ulm'rahktan dove si trovassero e cosa fosse quel suono. Essendo incarnazione della notte, il gatto non condivideva il disagio del suo compagno per la tenebra, e disse "C'è un fiume che scorre dietro la roccia e ciò che tu senti è il suo respiro. Serve a condurti dal suo creatore."
Placato il fuoco del tormento, il vecchio però ebbe a fargli notare che il suono non era utile a camminare nel buio, tanto più su una scala.
"Dunque, dopo aver sacrificato la tua giovinezza, il tuo vigore e la tua grazia, camminare al buio ti sembra spaventoso?"
Così rispose Ulm'rahktan e l'altro con saggezza ingoiò la bile. Tenendo le orecchie ben tese al respiro del fiume, discesero la scala senza sapere se all'esterno fosse giorno o notte, senza intuire se gli alberi avessero iniziato a fiorire o ad appassire, perché lì dov'erano tutto era sospeso. Ogni cosa era cristallizzata nella sua propria assenza, eccetto che il suono del fiume, che stava iniziando ad affievolirsi; e tanto meno era ghermito dalle orecchie, quanto più ai viaggiatori si manifestava la fine della scala. Era un pezzo di terra circolare abbracciato dal vuoto, e in esso iniziavano ad affollarsi alte spighe color del sole. Senza sapere se fossero esse stesse fonte di luce, o la traessero da un misterioso dove, Nilqa scoprì che il solo ammirarle aveva lenito i dolori del viaggio e della sua infausta condizione. Poi vide che tra le spighe si aggirava qualcuno, bianco come la neve e dai capelli di un rosso inconfondibile. Subito lo chiamò "Figlio di Vlada!" ed egli si girò, in attesa. Quando Nilqa lo raggiunse e potè guardarlo meglio, vide che anche i suoi occhi erano pregni del color del sangue e ne fu intimidito.
"Invero sono Iskravul, figlio di Vlada"
Il vecchio si profuse in un saluto rispettoso e si presentò come "Figlio di Tenqar, Uno dei sette primogeniti", ma Iskravul non ne fu colpito e disse solamente "Tu sei colui il quale ha camminato sui capelli di mia sorella Zernavul. Gli altri titoli non mi interessano"
Nilqa guardò Ulm'rahktan, fino a quel momento silente e ignorato dal figlio di Vlada, e pretese di sapere come fosse stato possibile creare il sole di metallo, di cosa fosse composta la parete che lo aveva salvato dalla caduta e che cosa fossero quelle spighe luminose in cui erano immersi. Tutto questo voleva conoscere, ma Iskravul gli guardò a fondo negli occhi stanchi e annuì tra sé e sé, trattenendo nel silenzio valutazioni molto severe. Poi rispose.
"Io e te condividiamo un'ascendenza, giacché sono tuo fratello per parte di padre. Quello che io posso creare, tu e i tuoi discendenti potrete farlo con altrettanta perizia"
Nilqa assorbì la rivelazione come acqua che ingloba un sasso in essa caduto: dopo un'increspatura leggera, figlia della sorpresa, la sua ambizione tornò a equilibrarsi prendendo il sopravvento su quanto era rimasto degli altri sentimenti. "Dimmelo, Iskravul"
Il figlio di Vlada si avvicinò al vecchio col suo corpo vigoroso, svettando sulla carne rovinata del suo ospite e nelle iridi sanguigne il risentimento guizzò come scintilla. "Di tutte le cose che chiedi, solo una te ne darò, perché sei mio fratello. Ma essa sia anche il prezzo da pagare affinché io non ti veda mai più, quindi decidi con attenzione la tua prossima richiesta"
Nilqa non ebbe alcun dubbio e chiese chiaramente "Col metallo che io desidero, forgiami una pletora di schiavi obbedienti, perché il metallo da solo può cambiare padrone, ma essi non lo faranno"
Sentita la richiesta, né Ulm'rahktan né Iskravul mostrarono sorpresa alcuna, ma anche allora non si scambiarono sguardi o verbo. Le spighe oscillarono piano, come obbedendo al sospiro che uscì dalle labbra del figlio di Vlada.
"E sia."

mercoledì 7 ottobre 2020

La Fioritura -LIII-

 Fedele alle parole del padre, Nilqa entrò nel territorio della montagna passando dall'arco dei due alberi e verso sera fu al riparo del bosco, attratto come tutte le creature dalla luce lunare emanata dalla pozza d'acqua. Lì la sua sete lo confuse agli altri assetati, e finché essa non fu soddisfatta egli non si vide dissimile dagli ungulati, dai ruminanti e dai rettili ivi concentrati in quieta assemblea, indi si appoggiò contro una quercia e cullato dai versi di tutti quei compagni si abbandonò alla stanchezza.

Si risvegliò che la luna era ancora alta e l'aria ferma, da solo. Dal momento che si sentiva in forze, decise di riprendere il cammino da dove l'aveva interrotto e per questo, come da istruzioni di suo padre, percorse il sentiero tracciato dal rivolo d'acqua che aveva dato corpo alla pozza e che lo avrebbe condotto al ruscello d'origine, alle pendici della montagna. Mentre camminava, qualcosa dietro di lui si mosse, ma credendolo un altro animale assetato non si voltò; allontanarsi dalla pozza fu però un allontanarsi dalla luce, e la sempre più solida tenebra diede potere al rumore. Subdola allora lo assalì la premura di uscire dalla selva, ma più nutriva speranza di esservi prossimo, più fitti i tronchi si facevano attorno a lui e più vicino l'ignoto inseguitore. Questi gli toccò la spalla forzandolo a voltarsi, e fu allora che Nilqa, benché il buio lo portasse prossimo alla cecità, riconobbe il viso di suo padre, paonazzo e deformato dai nervi "Tu non prenderai il metallo!" disse il maschio di Tenqar, colpendolo. La risposta di Nilqa fu vigorosa ma zoppa nella motivazione, ché cercava di difendersi mentre suo padre a ogni piè sospinto tentava di schiacciargli la testa con una grossa pietra, impresa in cui sarebbe certo riuscito, se tanto buio non lo avesse confuso. Nilqa fu lesto nell'approfittarne e fuggì dal bosco, aggrappandosi al solitario raggio di luna disteso in terra a tracciare il sentiero di salvezza; e tanto la luce lo sedusse che anche quando fu al sicuro continuò a scappare, perché il fascio di albedo si era fatto matassa di capelli candidi e calpestarli lo lasciava assuefatto alla speranza di incontrare l'essere cui appartenevano. Il luminoso crine lo condusse al fianco della montagna e poi su per la scala scolpita nella nera roccia verso la vetta, regina immobile tra le stelle. Quando Nilqa calcò la sommità della scalinata, vide di spalle la creatura che svolgendo i suoi capelli di luce lo aveva cavato dal pericolo, e per un attimo credette di aver raggiunto qualcosa il cui valore trascendesse il vile metallo, oggetto della sua ambizione. Nel momento però in cui ella si volse a incrociare il suo sguardo, di colpo non la vide più, in cielo persino la luna lo aveva lasciato, e i piedi ora non calpestavano il candido crine dell'apparizione, ma gelida neve. Nella solitudine più cupa, soppesata dai muti astri, Nilqa si accorse che sulla tenebra vi era una piega rossa e che essa era tanto occhio quanto ferita. Fissandola e facendosi a sua volta fissare, vi si avvicinò a sufficienza da scoprire che essa non era né occhio né piaga, ma crepa nella roccia, e che il suo pulsante riverbero color del sangue era sinistro riflesso di qualcosa che viveva all'interno. Oltre l'anfratto, la luce acquisì corpo e tinse le pareti cesellate da mano esperta, dove in rilievo era scolpita la storia di chi per una donna aveva costruito un talamo, poi una casa e infine un trono, lasciandole il potere e contentandosi del metallo. Nilqa aveva già ascoltato questa storia da suo padre, ma apprenderla dalla pietra lo infuse con la fredda durezza della parete stessa e non più con l'ardore della scoperta, ma con la consapevolezza del calcolo, attraversò il corridoio e poi gli immensi colonnati. Lì la luce rossa si era posata come vivo abbraccio sulla folla di muti pilastri, le cui teste si perdevano però nella tenebra della volta, dove nessuna luce osava spingersi. Nell'attraversare quel luogo, Nilqa subì la moltitudine di sguardi che percepiva in alto e il suo corpo perse forza, i capelli scolorirono e caddero, la pelle si fece sottile e raggrinzita. Quando infine uscì dai colonnati e fu arrivato alla grande sala, Nilqa era decrepito nella forma ma rigido nella saggezza, e grazie a ciò sostenne lo sguardo di chi lo stava fissando dal trono: Vlada era desta, forte e il suo immortale pallore cozzava violento col feroce rosso della chioma, che folta si dipanava in alto, alle spalle e ai suoi fianchi, coprendo il seggio di pietra e la roccia tutta attorno. La Pallida strinse lo sguardo sul visitatore ed egli sentì il sangue agitarsi nelle vene, rimestarsi nel cuore debole, finanche parlargli: "Io non ti ho chiamato".

Allora Nilqa seppe che il sangue era scettro e corona di Vlada, e le rispose senza esitazione nella lingua di Tenqar: "Non tu, ma il metallo."

Le gambe del vecchio persero la poca forza che possedevano e lo costrinsero in ginocchio. "Sei già più ricco di quando sei arrivato, perché chiedi ciò che non ti serve?" gorgogliò il sangue nelle tempie di Nilqa, provocandogli tormento.

Il vecchio rispose: "Decido io ciò che mi serve."

A quel dire, Vlada rilasciò la presa che lo torturava e disteso il braccio indicò la via per un'apertura che aveva creata nei suoi capelli. Nilqa vi passò attraverso senza dire nient'altro e si trovò all'interno di un'ampia sala che nulla aveva in comune col luogo appena lasciato. In alto vi erano le mani che avevano posto in cielo il sole, prigione di X'En, e sia le mani che il sole erano in metallo. Ai suoi piedi si stendeva una scala la cui lunghezza prescipitava giù per l'intera montagna e fin dentro le viscere della terra, là dove la luce emanata dalla rappresentazione del sole non poteva arrivare. Chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a quel percorso, Nilqa discese con pazienza i gradoni.

A un certo punto del percorso, gli parve di sentire una voce rivolgersi a lui, ma nella luce sempre più tenue non vide nessuno e si risolse a credere che fosse colpa della stanchezza. Dopo un po' la discesa si fece lenta, ché gli occhi deboli di Nilqa non vedevano a un palmo dal naso e doveva stare attento a dove metteva i piedi, ma una cosa la videro bene: sullo stesso gradino da cui stava tentando di scendere, Nilqa si accorse esserci un piccolo animale dagli occhi acuti. "Perché non hai risposto quando ti ho chiamato?" chiese il gatto.

"Non ti ho visto" rispose Nilqa.

Ulm'rahktan inclinò la testa "Mi hai sentito"

Il vecchio si fermò per riprendere fiato e per dare sollievo alle gambe doloranti. "Credevo di essere da solo" sospirò flebile. Ulm'rahktan lo fissò a lungo, penetrandolo con l'acume dei suoi occhi così particolari, dal colore placido e immobile, come terra sotto il sole di una ferma calura estiva o come acqua di lago prima dell'arrivo del temporale. 

"Ti sei abbeverato alla pozza insieme agli altri animali, credendo che fra essi non ve ne fossero di interessati alla tua carne; hai camminato sui capelli di Zernavul scambiandoli per i raggi della luna. Infine, hai violato il palazzo di Vlada, nel conforto illusorio di averle ripagato l'ospitalità sacrificando la tua giovinezza. Tu non conosci la solitudine"

Ascoltate le parole del gatto, Nilqa ne rimase turbato e gli chiese cose volesse.

"Voglio compagnia. Anch'io, come te, sto scendendo"

mercoledì 30 settembre 2020

La Fioritura -LII-

 Oltre i colonnati dove neanche il gelo penetrava, sul trono di pietra era assisa Vlada, cui l'eterno eco del più infimo rumore rimarcava la sospirata solitudine. Corta però fu la quiete, ché il frutto dei suoi inganni già le era cresciuto in grembo e ruggendo come bestia affamata si apprestava alla vita. Dentro la Pallida erano due figli, perché due i semi da cui discendevano, blanditi e poi separati dal potere della madre. Nel giorno della natività, straziando i lombi che li avevano nutriti si fecero strada all'esterno, rovesciandosi sul freddo pavimento della sala buia, dove i loro pianti si confusero. Il maschio aveva incarnato niveo e occhi color del sangue, e dello stesso colore i radi capelli; diversa era invece la femmina, scura come il padre, ma dotata di una cuffia di albedo lunare, e il contrasto tra i due toni era tanto marcato da risultare doloroso alla vista. Prendendoli tra le braccia, Vlada respirò a fondo il profumo della loro pelle e della loro carne, maturando il destino al quale li avrebbe condannati. Chiamò il figlio Iskravul e la figlia Zernavul, poi scese dalla montagna e seguendo il sentiero d'acqua, che dal ruscello conduceva al cuore del bosco, li abbandonò alla pozza circolare che era opera del maschio di Tenqar. Senza voltarsi riprese la via del suo palazzo e del suo trono, e lì restando per molto tempo immobile, serrò la presa della volontà attorno al suo sangue e lo costrinse a operare ciò che l'ambizione aveva elaborato. Tali erano le risorse versate nello sforzo che dalla testa iniziarono a crescere vermigli capelli, la cui fioritura diede violento calore alla spenta sala del trono; attecchirono sulla pietra e penetrarono nella roccia, poi continuarono a crescere. Quando l'atto arrivò a maturazione, la Pallida partorì l'immonda prima partenogenesi, bassa incarnazione della guerra che con la sua nascita veniva dichiarata ai Cinque Codici. La creatura non aveva un genere, ma una confusa pluralità di essi, sparsa come malerba su un corpo spezzato e sanguinante; da uno degli orifizi aperti come ferite strisciavano lamenti di fastidio e da una delle sette pupille, gibbosa anziché circolare, effluvi d'odio. Sua madre la guardò con l'intensità della serpe nei confronti del roditore, la prese in braccio come tra sinuose spire e dopo un momento di studio, aperta la bocca addentò la carne immonda e insensibile al dolore provocato la divorò viva. Riavute le risorse che le appartenevano, Vlada le convogliò di nuovo nel medesimo sforzo, prendendosi però più tempo per riuscire dove prima aveva fallito. Allora il suo grembo diede alla luce una bambina che come lei era pallida e simmetrica nelle forme, ma nei lineamenti la innata grazia veniva adombrata dalla presenza di un astio sottile e perciò pericoloso. Vlada la chiamò Nejnavezda, "l'odiosa", e la lasciò lì dove si trovava a patire fame e abbandono, perché voleva darle una sorella. Concentrò dunque il suo potere nell'idea del contatto, che più di tutto il resto le suscitava viva repulsione, e per questo la secondogenita nacque con le mani già protese alla carne più vicina, senza riuscire a distinguere la fame dall'affetto fisico. Vlada le riservò la stessa fine della prima partenogenesi, poi, senza attendere che il sangue sulla bocca si seccasse, dalla carne divorata venne ricomposto il corpo e dal corpo l'impronta sanguigna. Partorita la seconda figlia, per nome e titolo le diede un ordine: "Smotra" le disse, "guarda!", e seguendo la direzione in cui l'indice della madre puntava, la piccola vide Nejnavezda. Allora Smotra si prese cura della sorella come le era stato intimato e quella fu la sua sacra consegna, il Codice prima dei Codici.

Consolata dai risultati ottenuti, Vlada venne però turbata dal sospetto di aver imboccato un sentiero senza ritorno e che la sfrenata ambizione, anziché il giudizio, fosse ciò che la stava trascinando in avanti, mentre aveva fino a quel momento creduto di condurla. Scissa dal dilemma, perse la presa sul concepimento della terzogenita mentre esso avveniva e quando la mise al mondo, subito se ne accorse: sotto le macchie di sangue la piccola mostrava fattezze più dure, asimmetria tra arti e una coesistenza fra sessi maschile e femminile. Afferratala dal piccolo collo, Vlada la avvicinò ai denti ancora lucidi di sangue e fece per morderla, ma quando la creatura la guardò, non riuscì a far altro che esitare. In una vampa d'ira la precipitò a terra, dov'erano le altre sorelle e la chiamò Vlatzkin, "io esito".

Per recuperare l'equilibrio perduto, Vlada diede i natali alla quartogenita: la bambina era viva ma non si muoveva, né mostrava segni dei forti sentimenti di chi all'esistenza è nuovo. Si limitava a osservare la madre e le sorelle tenendosi equidistante da tutte loro, e in special modo da Vlatzkin. Per questa ragione fu insignita del nome Poryazda, che nella lingua del sangue è "non muoverti".

Così il ciclo ebbe nuovo respiro: ogni esemplare imperfetto era divorato per incubarne uno che Vlada avrebbe accettato, e il processo produsse Rystiva, unica a poter essere vista dalle sue sorelle ma non dalla madre, e la gemella Mmstiva, di cui al contrario soltanto Vlada conosceva l'aspetto. La settima fu Monocernova, più bella di tutte le altre figlie e finanche della madre, che sembrava assorbire il suo splendore da tutto ciò che la circondava, rendendola attraente tra tutte le razze di parassiti.

Venne poi il momento dell'ottavo parto, una bambina storta e dalle pupille gibbose che conobbe la luce rossa della sala masticando con gioia brandelli di utero materno. Lei fu Sarok, "la fine", figlia che come Vlatzkin condusse la madre a una catarsi; Vlada accettò di non poter più riprodursi e le sue carni si arresero sullo schienale di pietra, donandole il sonno.


mercoledì 23 settembre 2020

La Fioritura -LI-

 Siccome il maschio di Xish, quello di Tenqar tornò dalla montagna in trionfo. Con sé recava un cesto ricolmo di metalli grezzi, incrostati di pietra, e lo adagiò ai piedi di Tenqar. A quella vista, il male che era del suo uomo ammorbò anche lei, e da allora nel suo cuore altro non ci fu che l'appetito per il possesso. Chiese allora che quel tesoro le venisse donato e il maschio, d'improvviso scuro in volto e a capo chino, si forzò ad accettare. Il lutto però si estinse nel tempo dell'ingegno, che maturò un'idea. Successe allora che nel momento in cui Tenqar ricordò per quale motivo avesse tanto atteso il ritorno del suo maschio, lui le si negasse, e il rifiuto veniva reiterato con più forza di quanta ne venisse esercitata per tentarlo. Avvilita e umiliata, Tenqar ricorse alla ricchezza cui non avrebbe mai voluto attingere: dalla cesta che lui le aveva donato, prese una pepita luccicante e gliela porse. Il maschio sorrise, perché ciò che aveva previsto si era realizzato, e la sua virilità rispose di conseguenza. La coppia si avviluppò nella lussuria e nel piacere, della carne e del metallo in egual misura, e tanto grande crebbe quel seme da sfociare nella più ricca delle fioriture: sette furono infatti i primogeniti, ciascuno di essi maschio.

La famiglia aveva bisogno di un luogo che la riparasse e proteggesse, così Tenqar chiese al suo maschio di edificare qualcosa di adatto, e alla domanda sul perché dovesse farlo da solo, lei rispose che era stanca e doveva badare ai piccoli. Il compagno allora chiese in cambio un'altra pepita e lei acconsentì, ma stavolta più volentieri, ché aveva iniziato a capire quanto fosse più preziosa la ricchezza nel momento in cui veniva spesa, anziché serbata. Il maschio si recò nel bosco per la legna e ai piedi della montagna per la pietra; con questi materiali costruì la casa per la sua famiglia, solida e robusta, e perfino capace a sufficienza da accogliere un'altra generazione, ma assai lontana dall'imponenza del palazzo di Vlada, dalle rifiniture dei suoi interminabili colonnati e dalla simmetria cui aveva piegato la nuda roccia all'interno della montagna. 

Quando l'opera fu finita e Tenqar soddisfatta, il suo stanco compagno le chiese di andare a raccogliere del cibo e lo fece porgendole una delle proprie pepite. Questo modo di condurre la propria esistenza andò avanti ancora per molto altro tempo, e quale che fosse la necessità veniva risolta solamente con lo scambio di metallo, e mentre le generazioni si allargarono alla seconda e poi alla terza, il bisogno di una nuova casa venne fatto gravare sui membri della prima, ormai grandi. Essi, che dai genitori avevano ereditato non solo il tono argilloso della pelle, ma anche quel particolare appetito, richiesero per il lavoro sette pepite, una per ciascuna di loro. Dato però il numero, Tenqar e il suo maschio discussero su chi doveva dare più dell'altro, senza venirne a capo. Si fece avanti in quel momento uno dei sette, che prendendo i suoi genitori da parte e assicurandosi che nessun altro li ascoltasse, propose loro questo patto: avrebbe costruito la casa con i suoi fratelli e diversamente da loro senza profitto, a patto che un giorno, alle stesse condizioni, sua madre e suo padre restituissero il favore. Questi accettarono senza pensarci, presi com'erano dalla gioia di non doversi separare dall'amato metallo. Così fu edificata la seconda casa, dimora della terza generazione.

Poi ne arrivarono altre e si continuò a costruire case fino all'ottava, quando divenne oramai chiaro che ai figli più giovani sarebbe stato precluso l'accesso alla ricchezza, dal momento che le pepite erano limitate ed esse giravano tra i primogeniti, i secondogeniti e i genitori, assuefatti alla prosecuzione di quel circolo. Dalla terza all'ottava generazione si assieparono dunque attorno alla prima casa, chiedendo con toni minacciosi che il metallo potessero averlo anche loro. Mentre dentro la casa serpeggiava un terrore che Tenqar riusciva a malapena a contenere, il maschio fu sul punto di uscire coi primi e i secodogeniti per dare battaglia, ma in quel momento una mano si posò pacifica sulla loro spalla. Era il figlio con cui avevano stretto accordo, e la sua espressione anticipava meglio delle parole l'intenzione di riscuotere il vecchio debito. "Senza che foste privati della vostra ricchezza, ho costruito la casa di chi ora ci minaccia. Dovevate prevedere che chi è giovane abbia più fame: non siete stati saggi. Io lo sono, perciò per ripagare il mio lavoro e la mia pazienza, ora mi direte da dove viene il metallo."

Tenqar, apprezzandone l'ingegno, diede a lui ciò che gli altri figli non avevano né avrebbero mai avuto: gli diede il nome Nilqa, perché "primo di sette" e così benedisse la risoluzione della sua parte di debito. Il padre invece gli raccontò della montagna, dell'arco che da due alberi aveva ricavato, della pozza d'acqua in cui sole e luna si specchiavano, e finanche della scalinata incisa nella roccia. Di ogni cosa lo mise a parte, tranne che di Vlada. Saputo quanto doveva, Nilqa uscì ad affrontare i fratelli e le sorelle furiosi e promise che entro sette giorni sarebbe tornato con più metallo di quanto ne avessero mai visto, e sarebbe stato tutto loro. In un giubileo di approvazione, Nilqa riunì le sue cose e partì alla volta della montagna.

mercoledì 16 settembre 2020

La Fioritura -L-

 Nel giorno in cui fece ritorno, il maschio di Xish era ormai libero dalla tirannia del suo ruolo, perché su di esso aveva conquistato il controllo, e dalle alte spalle un manto di pelliccia si accasciava a terra, trascinando sulla distanza percorsa il sangue ancora fresco. Il prezioso trofeo da più parti era composto: a mo' di collare era allacciato il candore di una volpe bianca, che aveva le piccole fauci schiuse a mostrare i denti selvaggi, il naso ancora umido e le orbite vuote; sulle spalle erano adagiati due conigli acefali, con le zampe a penzolare esanimi verso il petto e le scapole; il resto del manto, che era la gran parte, aveva il pelo ispido dei lupi affrontati sulla cima della montagna, e il nero e il grigio si affollavano uno sull'altro senza requie, quasi le bestie avessero iniziato a lottare per contendersi il nuovo territorio. Nel vedere il suo maschio sì ricco e forte, Xish se ne innamorò e sfiorando il suo addome gli disse che lo voleva. Allora il maschio di Xish rispose che c'era un posto dove voleva condurla, là dove il loro potere sarebbe stato celebrato e nutrito dai cicli naturali, e solo in quel luogo l'avrebbe presa. Così partirono per la meta sconosciuta, da qualche parte dietro l'orizzonte a oriente, lasciando per sempre le tanto sprezzate montagne, che erano scuro confine del mondo a ponente, ma all'ombra delle quali si erano fatti signori.

Attraversarono la terra vedendola presto mutare nei venti e nei colori, ma mai si concessero un saggio di quel cambiamento, che pur esercitava un irresistibile richiamo, perché la meta aveva priorità sul viaggio. Una notte che si erano fermati per godere dei frutti della caccia al chiaro di luna, Xish iniziò a soffrire lo spazio aperto della pianura in cui si trovavano e desiderando che attorno a lei spuntasse una foresta di alberi per farla sentire a casa, sui superbi lineamenti calò l'ombra della tristezza. Accortosi del malumore della compagna, il maschio la coprì col manto di pelliccia, che era incarnazione del suo potere, e benché il problema non fosse il freddo, o l'invidia, questo bastò a ripristinare la bellezza di Xish, scacciandone la tenebra. Il giorno dopo giunsero sulla riva di un fiume, vasto e turbolento ostacolo alla terra che desideravano raggiungere, e il dubbio su come attraversarlo li impietrì. Dopo numerosi tentativi, in cui la corrente quasi li trascinò lontano l'uno dall'altra, si arresero alla pochezza degli strumenti con cui la natura li aveva armati per simili imprese, e nel riprendere il cammino lungo la riva per scoprire se ci fosse un guado, videro che una piccola creatura nera li stava fissando. Il gatto era seduto sulle zampe posteriori e i suoi occhi trasudavano intelligenza. Alla domanda di Xish su chi fosse, egli rispose cantando in una lingua straniera ma comprensibile: "Perché non chiedi aiuto al tuo sangue?"

Al che, alzata la testa e disteso il collo per ergersi ancora più al di sopra della minuta creatura, Xish rispose sprezzante "Proprio perché è il mio sangue, lui è potente in molte vie, ma come me non può attraversare questo fiume."

Il gatto tacque un momento, e quel silenzio pesò come pietra su Xish e il suo maschio, poi cantò che il sangue versato nell'acqua si era già fatto guado. Come goccia di rugiada che dalla foglia precipita nella pozza e rompe la quiete della stagnazione, allo stesso modo le parole appena udite invasero la mente di Xish, mutandone la confusione in consapevolezza. Si avvicinò di nuovo alla riva e con voce ferma evocò la parola cui l'epifania l'aveva condotta: Awyn.

Dalle pieghe fluide dell'acqua emerse lo sguardo vivace della sorella più minuta, e al suo apparire la corrente si placò, addormentandosi. Tale era la felicità di rivedere Xish e di conoscere il suo maschio, che Awyn la espresse guidando i pesci del fiume in una danza rituale, per ringraziare la sorella di averle chiesto aiuto e per propiziare la prosecuzione del viaggio. Poi sollevò le piccole mani da sotto l'acqua e quando Xish e il suo maschio le afferrarono, la sua gioia li contagiò. Nell'attimo in cui quel sentimento esaurì la sua carica, lasciando al suo posto un tiepido tepore di fiducia, i due pellegrini si accorsero di essere già dall'altra parte del fiume e che la terra attorno a loro era cambiata, diventando grassa e fertile, affollata di piante scure dalle foglie ampie e dal profumo assai intenso. Il gatto non c'era più, soltanto Awyn era rimasta con loro e la sua risata irradiò soddisfazione. Disse che era tempo anche per lei di riprendere il cammino, ché vi erano cascate da scavare, fiumi da tracciare e vecchi precipizi polverosi, retaggi della guerra di Shintara contro di Xenwa, da riempire per farne limpidi laghi. Questo disse, ma Xish e il suo maschio non la compresero, limitandosi a ritrarre le mani e a ringraziarla in silenzio mentre il suo sorriso spariva dietro le correnti di nuovo furiose del fiume. Appena si volsero per abbracciare con gli occhi la nuova terra, la meta del loro viaggio si mostrò nella sua imponenza: l'albero dai fiori rosa svettava cupo e torto da dietro l'orizzonte, e la folla di rami che spingeva in cielo sembrava da lontano una nube carica di pioggia e lampi. Xish e il suo maschio lo raggiunsero dopo una lunga percorrenza, stupendendosi di quanto fosse alto man mano che lo avvicinavano, e una volta calpestata la terra che a malapena riusciva a coprire le radici ingombranti, Xish si tolse di dosso il manto e lo porse al suo lui, spiegandogli che ciò che doveva essere fatto necessitava di un Re. Allora il maschio prese il manto e coprì di nuovo le spalle della compagna, rispondendole che ciò che doveva essere fatto non voleva farlo con la pelliccia, ma con lei. A quelle parole l'enorme tronco dell'albero schiuse un'entrata e i due amanti subito la varcarono, abbracciati in un'unione intensa che continuò anche dopo che il tronco si richiuse, e per molto altro tempo ancora. Ciò avvenne in autunno.

Al termine dell'inverno, i fiori rosa iniziarono a sbocciare timidi dai rami scuri, e poi eruppero gloriosi a primavera. Accanto a essi, nuove escrescenze si affacciarono alla vita e all'alba dell'estate erano già cresciuti diventando frutti maturi, grandi a sufficienza da non far sfigurare l'albero cui erano aggrappati. Quando la stagione calda arrivò al suo apice, i frutti caddero a terra e subito si schiusero, rivelando il prodigio in essi contenuto: i figli di Xish e del suo maschio si alzarono da terra, alti e snelli come i loro genitori, scuri come corteccia e tutti dotati, sia i maschi che le femmine, di una cascata di folti capelli neri. Questa fu l'alba del popolo dei Xish.

mercoledì 9 settembre 2020

La Fioritura -XLIX-

 Siccome un fiume che rompe gli argini feconda la terra tutta attorno, il maschio di Tenqar lasciò traccia duratura del suo vagare: al principio del percorso piegò due alberi uno verso l'altro, legandoli con foglie sottili ed elastiche in nodi dolci, affinché l'arco formato dalla loro unione fosse simbolica porta alla montagna, nonché monumento al viaggio appena intrapreso; poi, finito che aveva di legare una pietra all'estremità di un rozzo manico, scavò una piccola via d'acqua dal ruscello ai piedi della montagna fino alla macchia boscosa poco più a valle, facendola culminare in una pozza tanto rotonda e impeccabile che agli animali assetati sarebbe parso di abbeverarsi al sole di giorno e alla luna di notte. Infine, trovando defilata dal sentiero una parete di roccia adatta allo scopo, la scolpì in una spirale di gradini su cui, lento ma determinato, si fece strada verso l'alto; nel dubbio però di essere seguito da Tenqar, spesso durante la sua opera si costrinse a tornare in basso, così da sincerarsi che da quella prospettiva la scalinata non fosse visibile che da un occhio scrupoloso, per qualche motivo attratto da un muro di roccia spoglio e solitario. Quando fu sicuro che niente e nessuno fosse sulle sue tracce riprese l'opera con piglio saldo, gioioso nel lavoro, salendo il costone in direzione della vetta, oramai visibile dietro il velo traslucido che le nubi opponevano assai pigramente. Incontrò, a un certo punto della scultura, una pietra sporgente che ostruiva il percorso della scala, e notò che su di essa era poggiato un nido e nel nido quattro uova; il maschio di Tenqar si percepì d'improvviso affamato e giacché aveva ancora molto lavoro da fare prima che l'opera arrivasse a completezza, aperte le uova ne ingoiò il contenuto. Soppresso quell'istinto, con un ultimo travaso di energia completò la scala, calpestando finalmente l'agognata cima dove tutto era etereo, dall'aria al colore della neve, dal cielo diviso fra giorno e notte al profilo dell'orizzonte sfumato dall'altezza, perfino la realtà si impose sui sensi e subito le forze lo abbandonarono, sicché un pietoso sonno volò su di lui e gli chiuse gli occhi.

Al risveglio, nessuna delle sensazioni che lo avevano stordito era andata via, ma anzi se ne era aggiunta un'altra: vedendo davanti a sé, nella neve, un'altra figura rannicchiata nel sonno, al maschio di Tenqar parve di essere defunto e di stare osservando il corpo da cui la morte lo aveva separato. Poi però la vista si acuì e riconobbe che per quanto il trapasso avesse potuto spegnere il suo incarnato d'argilla, non sarebbe mai stato tanto pallido da risultare indistinguibile dalla neve. Oltre a ciò, quel corpo possedeva forme dove lui ne era sprovvisto e al contrario mancava là dove il suo opposto mostrava di più. Il maschio di Tenqar comprese dunque di stare osservando qualcun altro e vi si avvicinò cauto, con sospetto, perché quello che aveva davanti gli ricordava la forma della sua compagna. Scoprì però che la femmina riversa nella neve non era Tenqar, né Xish, ma una che non aveva mai visto e che esanime tremava, erosa dal freddo. Ella disse qualcosa in una lingua sconosciuta e il maschio di Tenqar capì ciò che doveva esser fatto. In fretta sfruttò la roccia grezza che la cima offriva in abbondanza per costruire attorno alla femmina quattro mura in solida pietra, unite da un tetto a cupola. Nel momento in cui lei si riprese, dalla sua bocca strisciarono altre parole in quel suo linguaggio duro, spiacevole alle orecchie del maschio di Tenqar, che però guardandola negli occhi percepì una fragilità cui solo lui poteva offrire protezione. Allora scese a valle lungo la gradinata e preso il legname necessario da un albero che aveva selezionato e poi abbattuto, costruì un talamo dove la femmina potesse riposare più comodamente. Dopo un lungo sonno ristoratore, la femmina si svegliò sorridente e per sdebitarsi condusse il maschio di Tenqar attraverso la fessura alta e stretta che dava accesso alla montagna, dove la tenebra era costellata di luci come la notte degli astri. Afferrata la mano del maschio, la condusse su uno di quei bagliori, facendogli scoprire l'esistenza del metallo e ottenebrandolo per sempre con la fame di tutto ciò che luccica. Per saziare l'immondo appetito, lui provò a separare la luce dalla roccia con ciò che aveva, ma dopo numerosi vani tentativi trattenne nelle mani solo polvere e avidità. Quando tornarono al riparo delle mura, subito si adoperò a trasformare lo spazio che aveva eretto per la pallida nella sua propria fucina, dove potesse ricavare con l'ingegno gli strumenti atti all'estrazione del metallo. Al che lei chinò la testa in segno di sottomissione e lo lasciò lavorare. Così, ogni giorno gli portava carne fresca e ogni notte acqua di fonte, fino al momento in cui l'opera fu completata. Costruiti gli strumenti, il maschio di Tenqar uscì per dirigersi all'antro, ma la bianca mano lo trattenne: con parole suadenti, pronunciate in una lingua che lui ancora non capiva, la femmina lo invitò sul talamo per permetterle di prendersi cura del corpo stanco, e l'altro si lasciò guidare. Deterso il sudore dai muscoli tozzi, gli strofinò addosso le saponose foglie di betulla e cintogli il collo con una ghirlanda di edera e bacche, lo accompagnò nel sonno. Al risveglio, il maschio di Tenqar recuperò la rigenerata fame di metallo e si diresse lì dove giacevano i frutti che la montagna si era ostinata a non condividere con lui; armato però dei nuovi strumenti, senza fatica estrasse ciò che agognava e dopo essersene riempito le braccia uscì festante dall'altro. Trovò il sorriso della pallida, che giunse le mani in ginocchio, omaggiandolo come proprio dio e signore. A quel riconoscimento, il maschio di Tenqar si lasciò cadere il tesoro dalle mani e avvicinatosi alla pallida finalmente la prese.

Lì giacquero per tre notti, senza avvertire sete o appetito, freddo o stanchezza, finché al termine dell'amplesso Vlada non si alzò in piedi toccandosi in grembo. Il maschio di Tenqar apprese che sarebbe diventato padre, ma ciò che il suo stesso sangue gli stava suggerendo andava oltre: per poter accogliere la sua discendenza, avrebbe dovuto costruire un palazzo. E così fu: la cima della montagna fu scolpita tanto bene all'esterno quanto riccamente all'interno, e dalla roccia nera furono ricavate stanze vaste e tetti sorretti da fittissimi colonnati, questi financo facenti funzione di mute guardie lungo il corridoio che conduceva infine al capolavoro del maschio Tenqar, un trono di pietra. Lì prese posto Vlada, che guardando dall'alto l'artefice della sua nuova dimora, disse che era per lui arrivato il tempo di tornare dalla sua vera compagna.

mercoledì 2 settembre 2020

La Fioritura -XLVIII-

 Come voto ai rispettivi celesti, Xish versò il sangue sul suo maschio durante la luna nuova e Tenqar fece altrettanto all'alba, infine attesero. I simulacri inspirarono il primo fiato al tramonto successivo e quando aprirono gli occhi, pur vedendo le compagne già in estasi per loro, non riuscirono a comprendere quel sentimento, né tantomeno a condividerlo. Passò molto tempo prima che le femmine li introducessero all'esistenza e spiegassero che il fine della loro era l'accoppiamento, ma i maschi, nonostante fossero tanto diversi quanto lo è la foglia dalla pietra, arrivarono ambedue al rifiuto del ruolo che gli era stato imposto. Al conseguente insistere delle compagne, presero la decisione di allontanarsi da loro e le avvertirono che se fossero stati seguiti, non sarebbero più tornati. Lasciarono così le femmine al tormento e al rammarico, senza curarsene, e intrapresero i gelidi sentieri lì dove la vita è solo di passaggio, nei corpi bui che col sole alle spalle coprono tutto il mondo d'ombra. Ai piedi delle Montagne Nere si divisero, prendendo ciascuno la direzione più congeniale alla propria natura: il maschio di Xish si inerpicò lungo un passo stretto e ostruito di neve, confidando nella presenza di prede e nella conservazione delle loro impronte; il maschio di Tenqar invece andò per un crinale spazioso e poco scosceso, ricco di rocce e arbusti e alberi da cui ricavare il necessario alla sopravvivenza.

Il maschio di Xish era agile, i suoi piedi leggeri non lasciavano segni, e mosso dalla fame presto trovò una tana perché i suoi occhi sapevano dove guardare. Dopo il primo giorno di esilio, aveva cacciato due conigli e li aveva mangiati crudi. Il secondo giorno il freddo si fece più pungente, la caccia più lenta, e alla fine riuscì a catturare soltanto una volpe. Con le pellicce si coprì la gola e le spalle, e dopo essersi riparato dietro un costone di roccia scura, finalmente riposò. Il terzo giorno inseguì uno stambecco su per la parete del monte, ma l'animale a ogni trappola si faceva più astuto, e all'arrivo del buio e del gelo ululante nemmeno le pietre appuntite del cacciatore, lanciate con implacabile perizia, riuscirono a offendergli il cranio, duro in omaggio alla pelle di sua madre la montagna, come il nero corvo alla notte. Il quarto giorno il maschio di Xish si trascinò affamato dove le tracce lo avevano condotto, all'interno di una caverna dove, se il destino gli avesse negato il pasto, avrebbe però trovato sicuro ristoro dal freddo. Non trovò né l'uno né l'altro, perché la gola della caverna emise minaccia nel momento in cui il piede dell'invasore aveva varcato l'entrata, e quella minaccia si fece carne nell'orso partorito dalla tenebra. Esso era grosso oltre ogni misura, tanto da non riuscire a muoversi se non strisciando, perché l'antro che con la propria mole stava strozzando non era la sua tana; infatti il corpo maciullato dello stambecco gli penzolava dalle fauci, e al vederlo il cuore del maschio di Xish si riempì di gelosia. Ingaggiò dunque con la creatura una lotta feroce, cieco di rabbia, ma lo squilibrio di forza lo portò alla fuga, lasciandosi dietro una scia di sangue e di vergogna. Ripercorse i suoi passi e discese a più mite altezza, ché il vespro incombeva e il vento rinforzava precipitandosi dalla vetta della montagna, una volta appiglio della luce di Rasseth e ora covo di freddo e morte. Al sorgere del quinto giorno, uno strano malessere svegliò il maschio di Xish; non erano le ferite o il ricordo dell'orso a tormentarlo, ma una sensazione nuova e spiacevole, tanto un capovolgimento violento della sua natura quanto un'integrazione della stessa: sapeva di essere osservato. Gli parve persino di vederli, quegli occhi, nel buio oltre la neve. Trasfigurato da cacciatore in preda, scese allora la montagna per ricongiungersi alle amate foreste, ma gli sguardi si moltiplicarono intorno a lui fino a farlo bestia in un recinto. Nel momento in cui la luce di X'En penetrò la foschia, realizzò che gli anelli di quella catena d'oppressione erano lupi grigi e neri, maschi e femmine, giovani e anziani, che lo fissavano placidi, senza mostrare i denti o segni d'appetito, tutti eccetto uno: si confondeva col mortale pallore della neve un lupo bianco che era alla testa degli altri, ma diversamente da loro non fissava l'intruso della montagna, perché i suoi occhi erano chiusi e rivoli di sangue colavano giù dalle palpebre. Nella testa del maschio di Xish si fece strada l'idea di seguirlo, cui cercò invano di resistere; i piedi solcarono in indipendenza il sentiero che la creatura aveva iniziato a tracciare innanzi, che lo portò di nuovo su per il gelido corpo della colossale roccia nera, attraverso il passo in cui lo stambecco era stato inseguito, poi sulla scia di sangue che stisciava fuori dalla grotta dell'orso. Svoltarono dietro una pietra alta e filiforme e da lì intrapresero una via in salita, posata sulle nubi che nascondevano agli occhi la vetta, tanto in alto dalla terra che per il maschio di Xish ogni respiro era difficile quanto il litigarsi la stessa preda con un orso. Quando infine arrivarono dove il lupo voleva, esso divenne feroce e attaccò il compagno di viaggio, che ebbe molta difficoltà a difendersi come sapeva, ché l'aria era rarefatta e lo spazio per muoversi infimo. Venne morso alla gamba, alla mano, al busto, e notò che le fauci del lupo si serravano quel tanto che bastava a provocare ferite lievi, quasi fosse più interessato al sapore del sangue che alla carne. Pur non capendo come fosse possibile per un animale cieco agire con tanta consapevolezza, lo ferì a sua volta con le mani nude, ma a ogni colpo inferto percepì la natura del predatore cambiare: non soltanto i guaiti di dolore si facevano sempre meno animali e sempre più simili a quelli di Xish, ma anche le apparenze piegarono le forme spigolose del lupo rendendole più aggraziate. A un certo punto, il maschio di Xish si accorse di stare lottando con una creatura pallida che aveva smesso di resistere, e anzi gli rivolgeva sorrisi e altre astute provocazioni. Il combattimento si fece velocemente amplesso e così, finalmente, il destino del maschio di Xish fu compiuto.


mercoledì 26 agosto 2020

La Fioritura -XLVII-

La notte in cui l'esistenza del maschio fu ricordata, un sentimento si fece largo nei lombi delle quattro figlie, e da lì in fermento si arrampicò fin dentro le loro teste, trasformandosi in ambizione. Quando il temporale cessò e il sole tornò a splendere sul rifugio fradicio e fangoso, venne il tempo dell'ingegno: una dopo l'altra, per alterne vie ma su per lo stesso altare, raccolsero le esperienze che l'abitudine aveva ammorbidito come infimo veleno, le imbracciarono talune come armi e le altre in guisa di scettri, e diedero corpo all'insostenibile desiderio. La più rapida a realizzarlo fu Xish che, alla stregua di un uccello nella costruzione di un nido, eresse il simulacro del suo maschio coi rami e gli stecchi migliori, lo rivestì delle pelli degli animali più pericolosi da cacciare e gli donò una criniera di foglie scure e profumate. La seconda più lesta fu Awyn, perché pur conoscendo il come meglio di tutte le sue sorelle, ignorava il cosa; dunque andò sulla spiaggia dove per la prima volta aveva visto il mare, lì dov'era felice, e rivolgendosi a Tlaotlican gli chiese di perdonarla per aver turbato il suo riposo, ma necessitava di sapere cosa usare per plasmare il suo uomo, giacché solo all'acqua era legata e non avrebbe amato niente e nessuno che fosse di sostanza diversa. Allora l'Eterno decise che l'avrebbe aiutata, perché quella passione era pura come quella che saldava l'Abbraccio, e parlandole col mormorio della risacca le rivelò che in fondo all'abisso, là dove Shintara si era formata e istruita, giaceva il materiale adatto ai suoi scopi. Awyn dunque si immerse e nuotò fino a quando l'ultima freccia di luce non fu spezzata dal buio, poi continuò a scendere. Superata la soglia della tenebra assoluta, si mostrò il timido pulsare di un riverbero prossimo al rossastro, come luce di tramonto che permea da una fessura, e quando Awyn lo raggiunse scoprì che esso era emanazione del materiale di cui Tlaotlican le aveva parlato: il corallo. Fu così che la piccola sorella trovò quello che cercava, e usandogli carezze e manipolazioni lo trasmutò nel corpo del suo maschio. Alla fine dell'opera, tanto fu soddisfatta dal risultato da prendere le due perle più candide in tutto il dominio marino e posargliele negli occhi.

A differenza delle sorelle che l'avevano preceduta, Tenqar impose il pensiero sull'azione, la tecnica sull'improvvisazione, e date queste premesse non si preoccupò dello scorrere del tempo, ché la qualità della plasmazione avrebbe ripagato la pazienza del realizzarla. In principio attese che le giornate volgessero all'umido, poi che il sole venisse coperto sempre più di frequente dalle nubi, e anche quando la pioggia iniziò a bagnare la terra e il vento a soffiare tra gli alberi, Tenqar attese. Il momento fu propizio al piombare del silenzio che precede il lampo, e all'attizzarsi delle fiamme su per il tronco di un vecchio pino seguì il tuono dai cieli, segnale questo che sanciva l'inizio dell'opera. Tenqar prese il fuoco e lo condusse in un antro che aveva ricavato all'interno di una roccia, facendone un forno; raccolse poi la fanghiglia formata dalle pioggie e la plasmò nelle sembianze del suo lui, destinandolo alla cottura all'interno dello strumento che proprio a quello scopo aveva creato. Il calore era però troppo basso e la creta non si saldò, mentre la seconda volta fu troppo alto e il risultato divenne fragile come foglia morta, dopo il raffreddamento. Al terzo tentativo la tecnica era stata perfezionata, gli errori compresi, l'argilla separata dal fango: Tenqar raggiunse il risultato di dimostrare che due mani avevano nella plasmazione più potere di due voci.

Da sola rimase quindi Vlada, che più di tutte le altre aveva cercato la risorsa atta a dare corpo al suo volere, trovando nient'altro che la naturale frustrazione sfociata dal sapere che in natura non c'era materia sua pari: la pietra era ferma come lei, ma non aveva alcuna grazia; l'osso ben simulava il suo candore, ma trovava posto solo nel corpo da cui avrebbe dovuto strapparlo; certo, la neve sarebbe stata perfetta, se bellezza e fatale fragilità avessero potuto separarsi. Non trovando nulla, Vlada si risolse a spiare le sue sorelle per ricevere ispirazione, e al riparo dell'ombra le derise, avendo scoperto che per dare sostanza ai loro compagni avevano scelto ramoscegli e fanghiglia. Eppure perseverò a osservare, curiosa come la Matrice da cui tutte erano sbocciate.

Finiti i loro lavori, Xish e Tenqar portarono i simulacri dei maschi nel punto in cui avevano visto i cervi accoppiarsi. Awyn non era più tornata dall'abisso, mentre Vlada osservava defilata la mostra delle sue sorelle. Quella sera la luna era piena e tracimante di luce, e a lei Xish rivolse la propria invocazione affinché la vita venisse infusa nel suo maschio. Il giorno dopo, quando il sole era al suo zenith, Tenqar fece lo stesso. Al tramonto seguente, due sussurri appena percepibili, uno che pareva soffiare dallo stanco sole sull'orizzonte, l'altro che sgocciolava dallo spettro della luna assiso dietro il velo del cielo, rivolgendosi a Xish e Tenqar nelle reciproche lingue dissero che non era saggio chiedere un dono che già possedevano. Dopodiché, le voci si estinsero e scese la notte.

Su quel responso Xish e Tenqar si interrogarono a lungo, senza tuttavia arrivare alla sintesi risolutiva. A un certo punto una accusò l'altra di essersi rivolta al nume celeste sbagliato, ingelosendo quello giusto e tanto animato fu il loro discorrere che si sarebbero giurate inimicizia se Vlada non le avesse interrotte con l'erompere della sua risata di scherno. "Il sangue" disse "il sangue è il dono, folli!". Quindi si morse la mano e dalla ferita lasciò sgocciolare a terra la rossa risposta al desiderio di vita, sì che le sue sorelle capissero la semplicità della soluzione e ne fossero al contempo umiliate.

Tutto ciò che Vlada però ricevette in cambio del suo aiuto fu ulteriore derisione, perché solo lei tra le quattro sorelle non era riuscita a crearsi un maschio. Mortalmente ferita nell'orgoglio, la pallida si ritirò sulle Montagne Nere, a covare sentimenti di potere nell'algida coperta della solitudine. Quella fu l'ultima volta che vide le sue sorelle.

mercoledì 19 agosto 2020

La Fioritura -XLVI-

 Compiuta che fu la Semina, i due giudici tornarono ciascuno alle proprie preoccupazioni -per quante ne potessero soffrire esseri come loro-, ciascuno ai misteri della propria esistenza, evitando nel farlo di rivolgersi sguardo o altro strumento di comunicazione, perché se l'avessero fatto avrebbero rivelato l'estrema amarezza che l'aveva colti dopo il verdetto. Venuti da alleati, se ne andarono divisi, uno adducendo in silenzio la colpa all'altro; non potevano e in special modo non volevano considerare che nel loro agire ci fosse stato difetto, benché qualcosa, con insistenza, glielo suggerisse "da dentro".

Così, molto tempo dopo che Ar Tlanèrva e Indh lasciarono quel tribunale, attorno alla pozza di sangue fiorì la vita: prima l'erba e poi i fragili germogli, alberi di ogni seme crebbero a fare ombra agli animali che sopra e sotto le fronde iniziavano a raggrupparsi. Altro tempo passò prima che la terra drenasse il sangue e se ne nutrisse, con lentezza e pazienza, finché il volto di nuovo fertile di Ama Nundra Mun non fu più succube delle stagioni, ma loro compagno. Man mano che questo processo si perfezionava, la pozza diveniva più sottile e nell'abbassarsi rivelò sul suo fondo l'esistenza di quattro corpi levigati e glabri; per quanto in principio sembrassero identici, più il sangue si asciugava, più si acuivano le differenze nelle dimensioni e nel colore, seppure la forma restasse immutata in ciascuno dei quattro esemplari. Quando ogni patina si dissolse e alla luce del giorno essi furono offerti in completezza, come colti dal medesimo spasmo si mossero in sincronia; dacché erano rannicchiati, prigionieri del sonno della gestazione, si alzarono in piedi e stiracchiarono gli arti oberati dal torpore, senza emettere alcun suono o spostarsi dal punto da cui si erano levati. Nel momento in cui i loro sguardi si incontrarono, fu come se avessero guardato in uno specchio d'acqua, giacché avevano tutte i lineamenti eterni di Mamath.

La più alta delle quattro aveva corpo asciutto, scuro come il tronco di un albero, e fu la prima a parlare. Disse "Xish" e quello divenne il suo nome.

La più bassa ed esile guardò le altre con la meraviglia negli occhi e disse "Awyn".

Le ultime due erano simili in altezza, ma opposte negli altri aspetti: laddove una mostrava forme armoniose, l'altra rispondeva con fianchi larghi e seno procace; alla pelle esangue della prima, la seconda contrapponeva un incarnato che era imitazione della terra argillosa. La pallida disse "Vlada", la prosperosa rispose "Tenqar".

L'esercizio della parola si doveva ad altro dalla mera bellezza, prima e più evidente eredità di Mamath: il sangue, potente utero in cui erano sbocciate e che, una volta esaurito il suo scopo principale, aveva nutrito la terra e le loro vene, trasferendo nei quattro ricettacoli non soltanto l'esperienza maturata dall'ascendente, ma anche ciò che bevendo dal Raama Toi le aveva donato il linguaggio. Le figlie di Mamath con la pronuncia della prima parola avevano detto "io sono", e quello fu il nome con cui vennero ricordate, l'epiteto dei loro discendenti e la radice delle lingue del mondo.

Il sangue e le fattezze di Mamath erano sì effigi di ciò che le univa, ma presto le differenze si fecero più evidenti, più infide. Xish infatti prese l'abitudine di assentarsi sempre più spesso, sempre più a lungo, a volte percorrendo lunghe distanze nella natura selvaggia, altre volte rimanendo nei pressi, ben nascosta e pronta a usare sulle sue sorelle le astuzie imparate dai predatori. Altrettanto faceva Awyn, che però non prendeva la direzione dei boschi, ma raggiungeva la costa e lì trascorreva le giornate ascoltando le onde mentre esse la cullavano, salvo tornare dalle altre quando la luna era alta e Tlaotlican riprendeva il riposo. Le più stanziali erano invece Vlada e Tenqar, sebbene mosse da sentimenti e ragioni diverse: mentre la prima infatti se ne stava arrampicata in cima all'albero più alto, gelosa della sua solitudine e del senso di sicurezza che questa le dava, l'altra aveva imparato a sfruttare le risorse della terra per ricavare ciò di cui lei e le sue sorelle avevano bisogno, come ceste per la raccolta di cibo o armi votate alla caccia.

Diverse abitudini e ancor più diversi temperamenti forgiarono velocemente diversi pensieri, che a loro volta produssero diversi linguaggi. Nonostante ciò, il sangue comune trovò presto una via affinché si comprendessero. Così nacquero la gestualità e l'intonazione, e poco più tardi, quando un qualunque evento di spessore aveva bisogno di celebrazione, come una buona caccia o il sereno dopo una tempesta, anche la musica e la danza.

Un giorno che pioveva molto forte e nessuna di loro poteva quindi assecondare la propria natura, si erano raccolte tutte e quattro sotto un riparo che Tenqar aveva costruito con dei rami e delle pelli di animale. Una accanto all'altra, in silenzio ascoltavano il respiro della pioggia ritrarre la furia e poi soffiarla di colpo, quando all'improvviso due cervi sbucarono dal folto del bosco invadendo il rifugio. Le sorelle videro subito che erano molto diversi l'uno dall'altro, sia per stazza che per le corna, che soltanto il più grande portava, ma non diedero peso alla cosa finché i due animali non iniziarono la monta. Le sorelle, impietrite da una vista tanto sgraziata quanto affascinante, si turbarono ancora di più quando videro che anche i sessi dei cervi erano diversi. Fu allora che non soltanto scoprirono il maschio, ma che si accorsero che nessuna di loro lo era.

mercoledì 12 agosto 2020

La Fioritura -XLV-

 Pur senza ricevere cenni o comandi di alcuna sorta, Mamath sapeva che Ar Tlanèrva e Indh erano lì per lei e li raggiunse. Mentre camminava, le parole di Ulm'andher risuonarono dentro di lei e quando ebbe colmata la distanza, non soltanto le comprese, ma le vide intessute nel Coro con cui Zatamana dirige il tempo e lo spazio. I due che l'attendevano si accorsero di quella vampata di pace, venendone in qualche modo turbati, e decisero che non sarebbe rimasta impunita. Così, Indh prese la parola e parlò speditamente nella propria lingua, con le sue due voci, sapendo che tutte le barriere di Mamath erano ormai cadute.

"Il Primo Codice hai violato, quando un solco e poi un fiume sul viso di Ama Nundra Mun hai inciso."

Mamath osservò Ar Tlanèrva e seppe che seppure immobile e all'apparenza apatico, da sotto il velo la stava fissando. Le nubi di sangue le parvero avvicinarsi improvvisamente alla terra. Tuttavia il suo seme era pronto e in lei il germe della paura era estinto. "Il fiume l'ho fatto con il mio sangue e dal mio sangue è ripagato." disse, nella lingua infusa dal Raama Toi "Ora esso nutre e guarisce le terre della Caduta. Non mi hai fatta per questo, creatore?"

Una sensazione nuova, il fastidio, snaturò il blu dell'occhio di Indh e lo rese meno brillante. "Il Secondo Codice hai violato, suscitando il sentimento al di fuori dei suoi confini." disse il dràna "Per tre volte hai generato pulsioni e per tre volte i loro sussurri non hai ricambiato".

Il Secondo era il Codice cui meno Ar Tlanèrva era affezionato, sicché l'incombere dei cieli sulle spalle di Mamath fu alleggerito e da sotto il velo di sangue lo sguardo si spense. Allora Mamath si mosse in avanti di un passo "Il lupo era affamato e solo, e ora non lo è più; parlando di Ulm'andher e Ulm'rahktan, al loro sussurro ricambierò col mio non appena il suo suono potrà essere da essi ascoltato, nel profondo della Mietitura. Questo lo so perché ho ascoltato il canto di Zatàmana, creatore, e se tu non lo avessi coperto con la seconda voce, lo sentiresti anche tu."

La pupilla d'argento si incrinò e il blu divenne opaco, come coperto da una cataratta di rabbia. "Il Terzo Codice hai violato, nel separare l'acqua dalla terra, prima confinandola di tua mano in un contenitore, poi nell'azione di quelli che tu chiami figli, i quali recano all'Abbraccio il freddo che ghiaccia le coste, l'umido che ruba al mare per dare alla terra, il torrido che fiacca la vita e il secco che la fa appassire"

Di nuovo Mamath percepì il peso dello sguardo di Ar Tlanèrva, da cui si sentì consumare, ma ormai il suo cuore batteva di concerto al Coro e persino il dolore ne era diventato una nota. "Usa il tuo occhio e guardami meglio, creatore: la forgiatura del tuo canto è forse rimasta intatta? Tu stesso non sei più il dràna suscitato dalla terra morta, non più simile tra i tuoi simili, ma primo su tutti loro. Tutto è cambiato e ancora cambierà, a prescindere dall'esistenza mia, dei miei figli, o dei figli dell'Abbraccio. Persino la Materia non è rimasta integra nel suo grembo di sempiterna conservazione, dunque tu vorresti che io attraversi il tempo senza manipolare il mondo, o senza che esso manipoli me?"

L'occhio iniziò a tremare e la pupilla d'argento guizzò insolentita su Ar Tlanèrva, che ancora stava seduto sul corpo del cervo, tenendo saggiamente lo sguardo e i pensieri ben al riparo del velo di sangue; ma il cadavere che gli faceva da scranno si era fatto rigonfio e dagli orifizi strisciarono fuori vermi d'ogni risma. Interpretandolo come segnale non solo per Mamath, ma anche nei suoi confronti, Indh dipanò il suo verbo in volo di guerra, e tanto sentiva di non poter fallire da riuscire a malapena ad accordare una voce all'altra. "Il Quarto Codice hai violato, ché le creature della notte hai circuìto alla luce, condannandole alla morte malgrado la natura le volesse vive al riparo delle tenebre"

Mamath rispose "Così come accettarono i doni dell'Oscuro Gemello, allo stesso modo hanno scelto di attendere l'alba per conoscere. Ho proposto, non imposto, una scelta e loro l'hanno esercitata pagandone il prezzo. Non so se esista saggezza che valga la vita, creatore, ma so che il cambiamento chiede sacrificio"

Vedendo Ar Tlanèrva alzarsi e i colori piegarsi sotto l'ira di Indh, Mamath li anticipò "Avesse potuto un qualunque ente del cosmo spezzare i Codici, essi non sarebbero stati tali. Infatti, se siete entrambi qui è perché non soltanto ho la colpa di aver bevuto dal Raama Toi prima di te, creatore, ma anche per aver capito cos'è il sangue che mi è stato donato."

Disse queste parole e attese, vestita di pace.

Il velo di Ar Tlanèrva si sollevò, rivelando il tremendo sguardo di Shintara, e prese la forma di una corona; questa si scompose sgocciolando verso il cielo rosso, finché non lo saturò di sangue coagulato e incancrenito che sull'Abbraccio e i suoi figli sparse un'anima di orrore. Un boato secco ruppe le nubi e ne rovesciò l'odioso contenuto su Mamath, crivellandola con feroci e affilate stille di pioggia rossa, che si moltiplicarono senza requie finché la tempesta non si addensò a comporre il velo, dietro il quale la figura della blasfema fu separata dalla vista di Ar Tlanèrva. Al precipitare dell'ultima goccia, le nubi esauste liberarono i cieli e ciò che rimaneva di Mamath era ormai mescolato al brodo di sangue sulla terra.