mercoledì 28 ottobre 2020

La Fioritura -LVI-

 Il giorno che Nilqa tornò dai suoi fratelli, essi non lo riconobbero. Decrepito era lo straniero ai loro occhi, torto come ramo nodoso e monco a destra. Una schiera di ventisette grigi esseri lo accompagnavano quieti, assuefatti all'obbedienza e sicuri nel passo pur avendo serrate le palpebre. Le generazioni di Tenqar li circondarono e si rivolsero al vecchio, giacché avevano riconosciuto in lui una guida.

"Perché vieni alle nostre dimore?" chiese qualcuno.

"Da quale sangue discendi?" chiesero gli altri, che erano la maggior parte.

Appesantito dalle spalle rigide, consumato in statura dalla pena e dalla deformità, il vecchio poté soltanto alzare lo sguardo verso le voci dei suoi consanguinei. Ne scrutò il vuoto, perché i suoi occhi erano stati spenti dal fuoco di Iskravul. Ma anche senza vederli, li sapeva giovani e forti e per questo li detestò. Il suo risentimento coprì l'ultimo guizzo di intelligenza con un velo che sarebbe da allora divenuto eterno sudario. "Miseri" sibilò "coloro che non riconoscono un fratello. E misero me, che vi conosco oggi"

Allora, mentre lo sconcerto soffiava di bocca in bocca, Nilqa sussurrò qualcosa di losco alle orecchie dei grigi e questi subito si mossero. Come un sol corpo strapparono le teste dai figli di Tenqar, deponendole ai piedi del loro padrone mentre gli altri correvano a chiudersi nelle loro dimore. Non ci fu però rifugio tanto solido da non crollare, porta che non fu sfondata, supplica che venne ascoltata. Legati al sangue con cui erano stati temprati, i grigi portarono l'orrore sulle otto generazioni e la desolazione su ciò che esse avevano costruito. Infine, fedeli al loro mandato, trascinarono Tenqar e il suo maschio ai piedi di Nilqa, preso fino a quel momento dal placido contemplare della sua volontà.

"Cos'altro vuoi che non ti sia già preso?" pianse Tenqar, che parlava a Nilqa ma si rivolgeva agli occhi vitrei dei suoi figli, le cui teste giacevano lì davanti impilate.

"Ho perso quasi tutto e sono il più potente tra i potenti del mondo." rispose Nilqa senza guardarla. "Ho perso quasi tutto, madre."

Tenqar dunque incanalò tutta la contrizione nella pronuncia del più penoso tra gli anatemi. "Perché i sette con cui sei venuto alla luce ora tu li hai distrutti, non sei più Uno di essi, e il nome che ti ho donato, io me lo riprendo."

Dalle labbra secche il vecchio espirò "Uno di sette" e da allora mai più lo disse né lo pensò, e tantomeno avrebbe permesso ad altri di farlo in sua vece. Restituito che ebbe il retaggio a sua madre, diede ordine ai suoi schiavi di uccidere lei e il maschio e quelli eseguirono nella connaturata brutalità, separandoli dalle teste intrise di paura. Così scomparve la genia di Tenqar e con essa la laboriosa fornace che aveva prodotto l'architettura di dimore robuste e tetti impenetrabili, fiore splendido nel giardino di un mondo giovane, ma appesantito e poi soffocato da infida malerba. Quando tutto fu silenzio e i muri delle grandi case scomposti tumuli sulla mattanza, il vecchio sentì farglisi vicino qualcuno, che non poteva essere uno dei suoi schiavi perché essi si muovevano solo quando lui lo comandava. "Cosa pensi?" chiese.

"Questo io lo avevo già visto, quindi vi ho creduto" rispose Ulm'rahktan "ma avendo adesso toccato, non posso dire di aver conosciuto."

Il vecchio ignorò le implicazioni di quei pensieri e disse "Tu e Iskravul mi avete rivelato che avrò discendenza. Mostrami come."

"Allontanati da questo luogo e continua a camminare. Quando sentirai di nuovo la mia voce, sarai arrivato."

L'altro obbedì a malincuore, perché sapeva di non avere scelta, e rimpianse il potere che ancora non possedeva. Si volse e intraprese il viaggio nella maniera in cui il gatto aveva precettato, senza farsi prendere da dubbi o reticenze, seppellendo le domande insieme ai rimorsi e alle memorie.

Lasciato solo all'incombere della notte, Ulm'rahktan produsse col suo canto un velo di pietà e con esso avvolse i corpi e le teste della genia di Tenqar. All'alba, il velo fu lacerato dai becchi di una torma di uccelli dal gracchiare vivace e lo sguardo intelligente, taluni interamente neri, altri invece imbastarditi da una chiazza bianca sul corpo; tutti erano l'incarnazione del momento più caro nella memoria di Ulm'rahktan, quando ovvero Mamath si era fatta corvo. Amandoli come aveva amato lei, insegnò loro il canto e la lingua dei dràna, ma per quanto ci provasse non riuscì a liberarli dall'appetito per il metallo, il cui lucore li attirava tra le macerie. Lasciandoli allora a conciliare la vecchia natura con la nuova, andò col pensiero là dove lui e il vecchio si sarebbero rivisti e in un attimo fu all'ombra del grande albero dai fiori rosa, circondato da altri alberi più bassi e tuttavia imponenti. Questi erano i palazzi del popolo dei Xish, e mentre dall'alto fogliame e dalle fessure nelle cortecce percepiva i loro sguardi più intensamente di uno scroscio di pioggia autunnale, da ponente scorse l'arrivo del vecchio e dei suoi ventisette schiavi.

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