mercoledì 21 ottobre 2020

La Fioritura -LV-

 Guidati da Iskravul, la cui chioma avvampava senza bruciare, Nilqa e Ulm'rahktan abbandonarono il campo di spighe e percorsero uno stretto corridoio di roccia calcarea costeggiato dal nulla, e al nulla diretto. Nel percorrere l'angusta via, Nilqa ebbe l'occasione per riprendere il controllo dei suoi pensieri e delle sue pulsioni, facendosi di conseguenza più fosco; tutto ciò che sarebbe stato da quel momento in avanti gli divenne chiaro. La risonanza del male appena gemmato rizzò i peli sulla schiena del gatto che lo precedeva innanzi, seguendo l'imperturbabile Iskravul nella tenebra ricacciata dall'avanzare del suo straordinario pallore. A un tratto, il buio si spalancò come una porta e rivelò il mondo che fino ad allora aveva nascosto: una distesa di ruggine e sabbia ospitava monoliti alti fino al cielo, popolato di stelle che avevano la forma e il colore del fogliame boscoso; al limitare di questa terra scorreva il fiume che Nilqa aveva sentito mentre scendeva la montagna, e che ai suoi occhi appariva bianco e denso.

"Cos'è quel fiume?" chiese, ignorato.

Iskravul poggiò un ginocchio in terra, affondò la mano nella sabbia e ne trattenne un pugno. Si avvicinò quindi a uno dei monoliti e lo percosse con la ruggine che aveva sottratto al suolo. A ogni colpo, il monolite si destava come da un sonno, e dalla pietra esalavano respiri incandescenti. Rapito e al contempo sconcertato da questo processo, Nilqa fu dilaniato tra la necessità di sapere e il desiderio di non mescolarsi a quella blasfemia, e dunque passò oltre per avvicinarsi a ciò che in principio aveva attratto i suoi sensi e che continuava a chiamarlo col tuono del proprio corso. Il fiume bianco scorreva con impeto nella valle rugginosa, incanalato verso una meta sconosciuta e tuttavia rispettoso dei suoi argini. Una volta sulla sponda, Nilqa ebbe molta difficoltà ad accovacciarsi per osservare il fiume da più vicino, ché le ossa gemevano ormai come legno marcio. Prima però che il dito avvizzito toccasse la bianca superficie, Ulm'rahktan lo interruppe chiamandolo piano. "Nilqa" disse "perché non credi a ciò che vedi?"

Nilqa annaspò con fatica, senza riuscire a tirarsi su né a chinarsi ulteriormente: "Al vedere, io credo. Al toccare, io conosco."

Allora il gatto inclinò la testa su un lato, osservandolo con stupore verace "Ma tu lo sai, figlio di Tenqar, che questo è latte. Lo riconosci dall'aspetto, lo senti dall'odore, eppure dubiti."

"Cosa c'è di male nel dubbio?" rispose il vecchio, i cui occhi mai abbandonavano il flusso del fiume "dubitare non ruba valore alla materia, ma le restituisce una promessa di prospettiva."

In quell'istante, fu come se tra gli occhi già prodigiosi di Ulm'rahktan se ne fosse aperto un terzo, quello che Mamath aveva fatto nascere e che in seguito alla di lei distruzione si era chiuso. Pur nel desiderio viscerale di rispondere, il gatto scoprì di non poterlo fare, perché il ricordo dell'amore pulsava ancora come carne lacerata e la mestizia gli aveva soffocata la voce. Così si limitò a osservare Nilqa nell'atto di toccare il latte, cosa in cui sarebbe riuscito se qualcos'altro alle loro spalle non si fosse imposto con forza. Prima li toccò una prepotente vampa di calore, poi una luce fredda invase terra e volta celeste rendendole sue pallide propaggini, tanto che financo il fiume latteo cessò di essere il pezzo più brillante di quel luogo. Iskravul aveva fatto del monolite una colonna di fuoco assai alta e vitale, e nel guardarla per il tempo di un battito di ciglia Nilqa aveva già perso parte della propria vista. Coprendosi gli occhi doloranti, si avvicinò al grande fuoco e chiese a Iskravul dove fossero gli schiavi promessi.

Il figlio di Vlada, che nelle iridi aveva sangue e fiamme in egual misura, guardava nel suo abbacinante monumento come Ulm'rahktan nelle tenebre. Prese poi la mano di Nilqa e lo forzò ad avvicinarsi alla luce, senza rispondere o pronunciare formule rituali. Per quanto però Nilqa cercasse di resistere, la sua miseria non gli permetteva di contrapporsi al potere di Iskravul, che senza sforzi gli spinse la mano nella colonna di fuoco. Il vecchio soffrì un tormento più intenso e feroce dello stesso braciere, gridò al cielo, pianse con amarezza e persino arrivò a pregare Iskravul di risparmiargli la pena, ché la ricompensa non ne era all'altezza; ma il figlio di Vlada attese fintanto che doveva, tenendo nel fuoco ciò che restava dell'arto finché non ci fu più nulla da bruciare e Nilqa cadde a terra, con un moncherino carbonizzato al posto del braccio.

La colonna di fuoco arse appagata, soffiando verso le stelle. Iskravul immerse le braccia in essa e dopo aver trovato qualcosa cui aggrapparsi, strattonò con tutta la forza di cui il suo corpo traboccava e dalle fiamme fu così estratto il corpo del primo schiavo. Egli era di un colore esangue, spento come metallo inerte, e gli occhi teneva chiusi perché non aveva ricevuto ordine di aprirli; non portava i segni del fuoco, né sul volto la sofferenza cui il suo padrone era invece soggiogato. Come lui un altro schiavo fu tratto dal fuoco, poi un terzo e altri ancora, e a ogni estrazione la colonna si abbassava e appassiva, diventando una languente brace poco più calda dei corpi che aveva forgiato, ormai moribonda quando l'ultimo degli schiavi fu estratto. Privato della luce delle fiamme, Nilqa si sentì circondato da sagome cui non riusciva a dare contorno né senso, e dunque si rivolse a Ulm'rahktan, che sapeva essergli vicino. "Chi sono questi che mi fissano senza guardarmi? Perché non hanno l'odore dei vivi?"

"Hai ciò che hai chiesto" rispose il gatto, provocando sul viso di Nilqa una contrazione orrenda.

"Perché mi hai ingannato, figlio di Vlada?" gridò Nilqa, deturpato tanto dalla rabbia quando dal dolore "Come farò a ottenere ciò che voglio senza la mia mano forte? E come farò a godere della mia opera, se a causa del tuo sortilegio non vedo più?"

Iskravul, che si era deterso il sudore dalla fronte per la spossatezza della forgiatura, non rivolse sentimento alcuno al povero vecchio che lo aveva apostrofato, ma parlò con la calma che era sua tempra e materiale, come il metallo lo era per le sue opere. "Ti ho dato ventisette schiavi, ognuno di essi dotato di ciò che tu ritieni io ti abbia sottratto. Soltanto la voce ti è necessaria per comandarli e quella la conservi insieme al senno. Tu sei invero la creatura che ha di più, e ti lamenti come se disgrazia fosse tua madre."

A quelle parole il querulante non osò contrapporre fiato: non un'altra lamentela o un doveroso ringraziamento, e nemmeno un commiato. Ordinò ai suoi servi di aiutarlo ad alzarsi e una volta in piedi si rivolse a Ulm'rahktan "Conosci la strada del ritorno?"

"La conosco" disse il gatto.

"Allora sono io a chiederti compagnia, questa volta"

"Segui il corso latteo, ma resisti alla tentazione di bervi." lo avvertì Ulm'rahktan.

A Nilqa quelle parole per una volta bastarono e le portò con sé, mentre il rombo del bianco fiume lo conduceva lontano dal luogo del suo supplizio. Una volta che fu distante, seguito da quelle mute ombre che erano i suoi schiavi, Iskravul si rivolse finalmente a Ulm'rahktan "Se egli possedesse il mondo, o se fosse capace di crearne uno di suo gradimento, poi guarderebbe alle stelle con stupore e invidia, e tutto ciò che fino a quel momento gli ha dato felicità e ricchezza diverrebbe polvere."

Il gatto tacque e Iskravul capì che non aveva nulla da obiettare, perciò continuò "Perché allora lo segui, maestro?"

La risposta di Ulm'rahktan si legò al suono dei passi lontani, restando viva mentre lui si confondeva alla tenebra. "Una promessa di prospettiva"

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