mercoledì 9 settembre 2020

La Fioritura -XLIX-

 Siccome un fiume che rompe gli argini feconda la terra tutta attorno, il maschio di Tenqar lasciò traccia duratura del suo vagare: al principio del percorso piegò due alberi uno verso l'altro, legandoli con foglie sottili ed elastiche in nodi dolci, affinché l'arco formato dalla loro unione fosse simbolica porta alla montagna, nonché monumento al viaggio appena intrapreso; poi, finito che aveva di legare una pietra all'estremità di un rozzo manico, scavò una piccola via d'acqua dal ruscello ai piedi della montagna fino alla macchia boscosa poco più a valle, facendola culminare in una pozza tanto rotonda e impeccabile che agli animali assetati sarebbe parso di abbeverarsi al sole di giorno e alla luna di notte. Infine, trovando defilata dal sentiero una parete di roccia adatta allo scopo, la scolpì in una spirale di gradini su cui, lento ma determinato, si fece strada verso l'alto; nel dubbio però di essere seguito da Tenqar, spesso durante la sua opera si costrinse a tornare in basso, così da sincerarsi che da quella prospettiva la scalinata non fosse visibile che da un occhio scrupoloso, per qualche motivo attratto da un muro di roccia spoglio e solitario. Quando fu sicuro che niente e nessuno fosse sulle sue tracce riprese l'opera con piglio saldo, gioioso nel lavoro, salendo il costone in direzione della vetta, oramai visibile dietro il velo traslucido che le nubi opponevano assai pigramente. Incontrò, a un certo punto della scultura, una pietra sporgente che ostruiva il percorso della scala, e notò che su di essa era poggiato un nido e nel nido quattro uova; il maschio di Tenqar si percepì d'improvviso affamato e giacché aveva ancora molto lavoro da fare prima che l'opera arrivasse a completezza, aperte le uova ne ingoiò il contenuto. Soppresso quell'istinto, con un ultimo travaso di energia completò la scala, calpestando finalmente l'agognata cima dove tutto era etereo, dall'aria al colore della neve, dal cielo diviso fra giorno e notte al profilo dell'orizzonte sfumato dall'altezza, perfino la realtà si impose sui sensi e subito le forze lo abbandonarono, sicché un pietoso sonno volò su di lui e gli chiuse gli occhi.

Al risveglio, nessuna delle sensazioni che lo avevano stordito era andata via, ma anzi se ne era aggiunta un'altra: vedendo davanti a sé, nella neve, un'altra figura rannicchiata nel sonno, al maschio di Tenqar parve di essere defunto e di stare osservando il corpo da cui la morte lo aveva separato. Poi però la vista si acuì e riconobbe che per quanto il trapasso avesse potuto spegnere il suo incarnato d'argilla, non sarebbe mai stato tanto pallido da risultare indistinguibile dalla neve. Oltre a ciò, quel corpo possedeva forme dove lui ne era sprovvisto e al contrario mancava là dove il suo opposto mostrava di più. Il maschio di Tenqar comprese dunque di stare osservando qualcun altro e vi si avvicinò cauto, con sospetto, perché quello che aveva davanti gli ricordava la forma della sua compagna. Scoprì però che la femmina riversa nella neve non era Tenqar, né Xish, ma una che non aveva mai visto e che esanime tremava, erosa dal freddo. Ella disse qualcosa in una lingua sconosciuta e il maschio di Tenqar capì ciò che doveva esser fatto. In fretta sfruttò la roccia grezza che la cima offriva in abbondanza per costruire attorno alla femmina quattro mura in solida pietra, unite da un tetto a cupola. Nel momento in cui lei si riprese, dalla sua bocca strisciarono altre parole in quel suo linguaggio duro, spiacevole alle orecchie del maschio di Tenqar, che però guardandola negli occhi percepì una fragilità cui solo lui poteva offrire protezione. Allora scese a valle lungo la gradinata e preso il legname necessario da un albero che aveva selezionato e poi abbattuto, costruì un talamo dove la femmina potesse riposare più comodamente. Dopo un lungo sonno ristoratore, la femmina si svegliò sorridente e per sdebitarsi condusse il maschio di Tenqar attraverso la fessura alta e stretta che dava accesso alla montagna, dove la tenebra era costellata di luci come la notte degli astri. Afferrata la mano del maschio, la condusse su uno di quei bagliori, facendogli scoprire l'esistenza del metallo e ottenebrandolo per sempre con la fame di tutto ciò che luccica. Per saziare l'immondo appetito, lui provò a separare la luce dalla roccia con ciò che aveva, ma dopo numerosi vani tentativi trattenne nelle mani solo polvere e avidità. Quando tornarono al riparo delle mura, subito si adoperò a trasformare lo spazio che aveva eretto per la pallida nella sua propria fucina, dove potesse ricavare con l'ingegno gli strumenti atti all'estrazione del metallo. Al che lei chinò la testa in segno di sottomissione e lo lasciò lavorare. Così, ogni giorno gli portava carne fresca e ogni notte acqua di fonte, fino al momento in cui l'opera fu completata. Costruiti gli strumenti, il maschio di Tenqar uscì per dirigersi all'antro, ma la bianca mano lo trattenne: con parole suadenti, pronunciate in una lingua che lui ancora non capiva, la femmina lo invitò sul talamo per permetterle di prendersi cura del corpo stanco, e l'altro si lasciò guidare. Deterso il sudore dai muscoli tozzi, gli strofinò addosso le saponose foglie di betulla e cintogli il collo con una ghirlanda di edera e bacche, lo accompagnò nel sonno. Al risveglio, il maschio di Tenqar recuperò la rigenerata fame di metallo e si diresse lì dove giacevano i frutti che la montagna si era ostinata a non condividere con lui; armato però dei nuovi strumenti, senza fatica estrasse ciò che agognava e dopo essersene riempito le braccia uscì festante dall'altro. Trovò il sorriso della pallida, che giunse le mani in ginocchio, omaggiandolo come proprio dio e signore. A quel riconoscimento, il maschio di Tenqar si lasciò cadere il tesoro dalle mani e avvicinatosi alla pallida finalmente la prese.

Lì giacquero per tre notti, senza avvertire sete o appetito, freddo o stanchezza, finché al termine dell'amplesso Vlada non si alzò in piedi toccandosi in grembo. Il maschio di Tenqar apprese che sarebbe diventato padre, ma ciò che il suo stesso sangue gli stava suggerendo andava oltre: per poter accogliere la sua discendenza, avrebbe dovuto costruire un palazzo. E così fu: la cima della montagna fu scolpita tanto bene all'esterno quanto riccamente all'interno, e dalla roccia nera furono ricavate stanze vaste e tetti sorretti da fittissimi colonnati, questi financo facenti funzione di mute guardie lungo il corridoio che conduceva infine al capolavoro del maschio Tenqar, un trono di pietra. Lì prese posto Vlada, che guardando dall'alto l'artefice della sua nuova dimora, disse che era per lui arrivato il tempo di tornare dalla sua vera compagna.

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