mercoledì 23 settembre 2020

La Fioritura -LI-

 Siccome il maschio di Xish, quello di Tenqar tornò dalla montagna in trionfo. Con sé recava un cesto ricolmo di metalli grezzi, incrostati di pietra, e lo adagiò ai piedi di Tenqar. A quella vista, il male che era del suo uomo ammorbò anche lei, e da allora nel suo cuore altro non ci fu che l'appetito per il possesso. Chiese allora che quel tesoro le venisse donato e il maschio, d'improvviso scuro in volto e a capo chino, si forzò ad accettare. Il lutto però si estinse nel tempo dell'ingegno, che maturò un'idea. Successe allora che nel momento in cui Tenqar ricordò per quale motivo avesse tanto atteso il ritorno del suo maschio, lui le si negasse, e il rifiuto veniva reiterato con più forza di quanta ne venisse esercitata per tentarlo. Avvilita e umiliata, Tenqar ricorse alla ricchezza cui non avrebbe mai voluto attingere: dalla cesta che lui le aveva donato, prese una pepita luccicante e gliela porse. Il maschio sorrise, perché ciò che aveva previsto si era realizzato, e la sua virilità rispose di conseguenza. La coppia si avviluppò nella lussuria e nel piacere, della carne e del metallo in egual misura, e tanto grande crebbe quel seme da sfociare nella più ricca delle fioriture: sette furono infatti i primogeniti, ciascuno di essi maschio.

La famiglia aveva bisogno di un luogo che la riparasse e proteggesse, così Tenqar chiese al suo maschio di edificare qualcosa di adatto, e alla domanda sul perché dovesse farlo da solo, lei rispose che era stanca e doveva badare ai piccoli. Il compagno allora chiese in cambio un'altra pepita e lei acconsentì, ma stavolta più volentieri, ché aveva iniziato a capire quanto fosse più preziosa la ricchezza nel momento in cui veniva spesa, anziché serbata. Il maschio si recò nel bosco per la legna e ai piedi della montagna per la pietra; con questi materiali costruì la casa per la sua famiglia, solida e robusta, e perfino capace a sufficienza da accogliere un'altra generazione, ma assai lontana dall'imponenza del palazzo di Vlada, dalle rifiniture dei suoi interminabili colonnati e dalla simmetria cui aveva piegato la nuda roccia all'interno della montagna. 

Quando l'opera fu finita e Tenqar soddisfatta, il suo stanco compagno le chiese di andare a raccogliere del cibo e lo fece porgendole una delle proprie pepite. Questo modo di condurre la propria esistenza andò avanti ancora per molto altro tempo, e quale che fosse la necessità veniva risolta solamente con lo scambio di metallo, e mentre le generazioni si allargarono alla seconda e poi alla terza, il bisogno di una nuova casa venne fatto gravare sui membri della prima, ormai grandi. Essi, che dai genitori avevano ereditato non solo il tono argilloso della pelle, ma anche quel particolare appetito, richiesero per il lavoro sette pepite, una per ciascuna di loro. Dato però il numero, Tenqar e il suo maschio discussero su chi doveva dare più dell'altro, senza venirne a capo. Si fece avanti in quel momento uno dei sette, che prendendo i suoi genitori da parte e assicurandosi che nessun altro li ascoltasse, propose loro questo patto: avrebbe costruito la casa con i suoi fratelli e diversamente da loro senza profitto, a patto che un giorno, alle stesse condizioni, sua madre e suo padre restituissero il favore. Questi accettarono senza pensarci, presi com'erano dalla gioia di non doversi separare dall'amato metallo. Così fu edificata la seconda casa, dimora della terza generazione.

Poi ne arrivarono altre e si continuò a costruire case fino all'ottava, quando divenne oramai chiaro che ai figli più giovani sarebbe stato precluso l'accesso alla ricchezza, dal momento che le pepite erano limitate ed esse giravano tra i primogeniti, i secondogeniti e i genitori, assuefatti alla prosecuzione di quel circolo. Dalla terza all'ottava generazione si assieparono dunque attorno alla prima casa, chiedendo con toni minacciosi che il metallo potessero averlo anche loro. Mentre dentro la casa serpeggiava un terrore che Tenqar riusciva a malapena a contenere, il maschio fu sul punto di uscire coi primi e i secodogeniti per dare battaglia, ma in quel momento una mano si posò pacifica sulla loro spalla. Era il figlio con cui avevano stretto accordo, e la sua espressione anticipava meglio delle parole l'intenzione di riscuotere il vecchio debito. "Senza che foste privati della vostra ricchezza, ho costruito la casa di chi ora ci minaccia. Dovevate prevedere che chi è giovane abbia più fame: non siete stati saggi. Io lo sono, perciò per ripagare il mio lavoro e la mia pazienza, ora mi direte da dove viene il metallo."

Tenqar, apprezzandone l'ingegno, diede a lui ciò che gli altri figli non avevano né avrebbero mai avuto: gli diede il nome Nilqa, perché "primo di sette" e così benedisse la risoluzione della sua parte di debito. Il padre invece gli raccontò della montagna, dell'arco che da due alberi aveva ricavato, della pozza d'acqua in cui sole e luna si specchiavano, e finanche della scalinata incisa nella roccia. Di ogni cosa lo mise a parte, tranne che di Vlada. Saputo quanto doveva, Nilqa uscì ad affrontare i fratelli e le sorelle furiosi e promise che entro sette giorni sarebbe tornato con più metallo di quanto ne avessero mai visto, e sarebbe stato tutto loro. In un giubileo di approvazione, Nilqa riunì le sue cose e partì alla volta della montagna.

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