mercoledì 7 ottobre 2020

La Fioritura -LIII-

 Fedele alle parole del padre, Nilqa entrò nel territorio della montagna passando dall'arco dei due alberi e verso sera fu al riparo del bosco, attratto come tutte le creature dalla luce lunare emanata dalla pozza d'acqua. Lì la sua sete lo confuse agli altri assetati, e finché essa non fu soddisfatta egli non si vide dissimile dagli ungulati, dai ruminanti e dai rettili ivi concentrati in quieta assemblea, indi si appoggiò contro una quercia e cullato dai versi di tutti quei compagni si abbandonò alla stanchezza.

Si risvegliò che la luna era ancora alta e l'aria ferma, da solo. Dal momento che si sentiva in forze, decise di riprendere il cammino da dove l'aveva interrotto e per questo, come da istruzioni di suo padre, percorse il sentiero tracciato dal rivolo d'acqua che aveva dato corpo alla pozza e che lo avrebbe condotto al ruscello d'origine, alle pendici della montagna. Mentre camminava, qualcosa dietro di lui si mosse, ma credendolo un altro animale assetato non si voltò; allontanarsi dalla pozza fu però un allontanarsi dalla luce, e la sempre più solida tenebra diede potere al rumore. Subdola allora lo assalì la premura di uscire dalla selva, ma più nutriva speranza di esservi prossimo, più fitti i tronchi si facevano attorno a lui e più vicino l'ignoto inseguitore. Questi gli toccò la spalla forzandolo a voltarsi, e fu allora che Nilqa, benché il buio lo portasse prossimo alla cecità, riconobbe il viso di suo padre, paonazzo e deformato dai nervi "Tu non prenderai il metallo!" disse il maschio di Tenqar, colpendolo. La risposta di Nilqa fu vigorosa ma zoppa nella motivazione, ché cercava di difendersi mentre suo padre a ogni piè sospinto tentava di schiacciargli la testa con una grossa pietra, impresa in cui sarebbe certo riuscito, se tanto buio non lo avesse confuso. Nilqa fu lesto nell'approfittarne e fuggì dal bosco, aggrappandosi al solitario raggio di luna disteso in terra a tracciare il sentiero di salvezza; e tanto la luce lo sedusse che anche quando fu al sicuro continuò a scappare, perché il fascio di albedo si era fatto matassa di capelli candidi e calpestarli lo lasciava assuefatto alla speranza di incontrare l'essere cui appartenevano. Il luminoso crine lo condusse al fianco della montagna e poi su per la scala scolpita nella nera roccia verso la vetta, regina immobile tra le stelle. Quando Nilqa calcò la sommità della scalinata, vide di spalle la creatura che svolgendo i suoi capelli di luce lo aveva cavato dal pericolo, e per un attimo credette di aver raggiunto qualcosa il cui valore trascendesse il vile metallo, oggetto della sua ambizione. Nel momento però in cui ella si volse a incrociare il suo sguardo, di colpo non la vide più, in cielo persino la luna lo aveva lasciato, e i piedi ora non calpestavano il candido crine dell'apparizione, ma gelida neve. Nella solitudine più cupa, soppesata dai muti astri, Nilqa si accorse che sulla tenebra vi era una piega rossa e che essa era tanto occhio quanto ferita. Fissandola e facendosi a sua volta fissare, vi si avvicinò a sufficienza da scoprire che essa non era né occhio né piaga, ma crepa nella roccia, e che il suo pulsante riverbero color del sangue era sinistro riflesso di qualcosa che viveva all'interno. Oltre l'anfratto, la luce acquisì corpo e tinse le pareti cesellate da mano esperta, dove in rilievo era scolpita la storia di chi per una donna aveva costruito un talamo, poi una casa e infine un trono, lasciandole il potere e contentandosi del metallo. Nilqa aveva già ascoltato questa storia da suo padre, ma apprenderla dalla pietra lo infuse con la fredda durezza della parete stessa e non più con l'ardore della scoperta, ma con la consapevolezza del calcolo, attraversò il corridoio e poi gli immensi colonnati. Lì la luce rossa si era posata come vivo abbraccio sulla folla di muti pilastri, le cui teste si perdevano però nella tenebra della volta, dove nessuna luce osava spingersi. Nell'attraversare quel luogo, Nilqa subì la moltitudine di sguardi che percepiva in alto e il suo corpo perse forza, i capelli scolorirono e caddero, la pelle si fece sottile e raggrinzita. Quando infine uscì dai colonnati e fu arrivato alla grande sala, Nilqa era decrepito nella forma ma rigido nella saggezza, e grazie a ciò sostenne lo sguardo di chi lo stava fissando dal trono: Vlada era desta, forte e il suo immortale pallore cozzava violento col feroce rosso della chioma, che folta si dipanava in alto, alle spalle e ai suoi fianchi, coprendo il seggio di pietra e la roccia tutta attorno. La Pallida strinse lo sguardo sul visitatore ed egli sentì il sangue agitarsi nelle vene, rimestarsi nel cuore debole, finanche parlargli: "Io non ti ho chiamato".

Allora Nilqa seppe che il sangue era scettro e corona di Vlada, e le rispose senza esitazione nella lingua di Tenqar: "Non tu, ma il metallo."

Le gambe del vecchio persero la poca forza che possedevano e lo costrinsero in ginocchio. "Sei già più ricco di quando sei arrivato, perché chiedi ciò che non ti serve?" gorgogliò il sangue nelle tempie di Nilqa, provocandogli tormento.

Il vecchio rispose: "Decido io ciò che mi serve."

A quel dire, Vlada rilasciò la presa che lo torturava e disteso il braccio indicò la via per un'apertura che aveva creata nei suoi capelli. Nilqa vi passò attraverso senza dire nient'altro e si trovò all'interno di un'ampia sala che nulla aveva in comune col luogo appena lasciato. In alto vi erano le mani che avevano posto in cielo il sole, prigione di X'En, e sia le mani che il sole erano in metallo. Ai suoi piedi si stendeva una scala la cui lunghezza prescipitava giù per l'intera montagna e fin dentro le viscere della terra, là dove la luce emanata dalla rappresentazione del sole non poteva arrivare. Chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a quel percorso, Nilqa discese con pazienza i gradoni.

A un certo punto del percorso, gli parve di sentire una voce rivolgersi a lui, ma nella luce sempre più tenue non vide nessuno e si risolse a credere che fosse colpa della stanchezza. Dopo un po' la discesa si fece lenta, ché gli occhi deboli di Nilqa non vedevano a un palmo dal naso e doveva stare attento a dove metteva i piedi, ma una cosa la videro bene: sullo stesso gradino da cui stava tentando di scendere, Nilqa si accorse esserci un piccolo animale dagli occhi acuti. "Perché non hai risposto quando ti ho chiamato?" chiese il gatto.

"Non ti ho visto" rispose Nilqa.

Ulm'rahktan inclinò la testa "Mi hai sentito"

Il vecchio si fermò per riprendere fiato e per dare sollievo alle gambe doloranti. "Credevo di essere da solo" sospirò flebile. Ulm'rahktan lo fissò a lungo, penetrandolo con l'acume dei suoi occhi così particolari, dal colore placido e immobile, come terra sotto il sole di una ferma calura estiva o come acqua di lago prima dell'arrivo del temporale. 

"Ti sei abbeverato alla pozza insieme agli altri animali, credendo che fra essi non ve ne fossero di interessati alla tua carne; hai camminato sui capelli di Zernavul scambiandoli per i raggi della luna. Infine, hai violato il palazzo di Vlada, nel conforto illusorio di averle ripagato l'ospitalità sacrificando la tua giovinezza. Tu non conosci la solitudine"

Ascoltate le parole del gatto, Nilqa ne rimase turbato e gli chiese cose volesse.

"Voglio compagnia. Anch'io, come te, sto scendendo"

Nessun commento:

Posta un commento