mercoledì 26 agosto 2020

La Fioritura -XLVII-

La notte in cui l'esistenza del maschio fu ricordata, un sentimento si fece largo nei lombi delle quattro figlie, e da lì in fermento si arrampicò fin dentro le loro teste, trasformandosi in ambizione. Quando il temporale cessò e il sole tornò a splendere sul rifugio fradicio e fangoso, venne il tempo dell'ingegno: una dopo l'altra, per alterne vie ma su per lo stesso altare, raccolsero le esperienze che l'abitudine aveva ammorbidito come infimo veleno, le imbracciarono talune come armi e le altre in guisa di scettri, e diedero corpo all'insostenibile desiderio. La più rapida a realizzarlo fu Xish che, alla stregua di un uccello nella costruzione di un nido, eresse il simulacro del suo maschio coi rami e gli stecchi migliori, lo rivestì delle pelli degli animali più pericolosi da cacciare e gli donò una criniera di foglie scure e profumate. La seconda più lesta fu Awyn, perché pur conoscendo il come meglio di tutte le sue sorelle, ignorava il cosa; dunque andò sulla spiaggia dove per la prima volta aveva visto il mare, lì dov'era felice, e rivolgendosi a Tlaotlican gli chiese di perdonarla per aver turbato il suo riposo, ma necessitava di sapere cosa usare per plasmare il suo uomo, giacché solo all'acqua era legata e non avrebbe amato niente e nessuno che fosse di sostanza diversa. Allora l'Eterno decise che l'avrebbe aiutata, perché quella passione era pura come quella che saldava l'Abbraccio, e parlandole col mormorio della risacca le rivelò che in fondo all'abisso, là dove Shintara si era formata e istruita, giaceva il materiale adatto ai suoi scopi. Awyn dunque si immerse e nuotò fino a quando l'ultima freccia di luce non fu spezzata dal buio, poi continuò a scendere. Superata la soglia della tenebra assoluta, si mostrò il timido pulsare di un riverbero prossimo al rossastro, come luce di tramonto che permea da una fessura, e quando Awyn lo raggiunse scoprì che esso era emanazione del materiale di cui Tlaotlican le aveva parlato: il corallo. Fu così che la piccola sorella trovò quello che cercava, e usandogli carezze e manipolazioni lo trasmutò nel corpo del suo maschio. Alla fine dell'opera, tanto fu soddisfatta dal risultato da prendere le due perle più candide in tutto il dominio marino e posargliele negli occhi.

A differenza delle sorelle che l'avevano preceduta, Tenqar impose il pensiero sull'azione, la tecnica sull'improvvisazione, e date queste premesse non si preoccupò dello scorrere del tempo, ché la qualità della plasmazione avrebbe ripagato la pazienza del realizzarla. In principio attese che le giornate volgessero all'umido, poi che il sole venisse coperto sempre più di frequente dalle nubi, e anche quando la pioggia iniziò a bagnare la terra e il vento a soffiare tra gli alberi, Tenqar attese. Il momento fu propizio al piombare del silenzio che precede il lampo, e all'attizzarsi delle fiamme su per il tronco di un vecchio pino seguì il tuono dai cieli, segnale questo che sanciva l'inizio dell'opera. Tenqar prese il fuoco e lo condusse in un antro che aveva ricavato all'interno di una roccia, facendone un forno; raccolse poi la fanghiglia formata dalle pioggie e la plasmò nelle sembianze del suo lui, destinandolo alla cottura all'interno dello strumento che proprio a quello scopo aveva creato. Il calore era però troppo basso e la creta non si saldò, mentre la seconda volta fu troppo alto e il risultato divenne fragile come foglia morta, dopo il raffreddamento. Al terzo tentativo la tecnica era stata perfezionata, gli errori compresi, l'argilla separata dal fango: Tenqar raggiunse il risultato di dimostrare che due mani avevano nella plasmazione più potere di due voci.

Da sola rimase quindi Vlada, che più di tutte le altre aveva cercato la risorsa atta a dare corpo al suo volere, trovando nient'altro che la naturale frustrazione sfociata dal sapere che in natura non c'era materia sua pari: la pietra era ferma come lei, ma non aveva alcuna grazia; l'osso ben simulava il suo candore, ma trovava posto solo nel corpo da cui avrebbe dovuto strapparlo; certo, la neve sarebbe stata perfetta, se bellezza e fatale fragilità avessero potuto separarsi. Non trovando nulla, Vlada si risolse a spiare le sue sorelle per ricevere ispirazione, e al riparo dell'ombra le derise, avendo scoperto che per dare sostanza ai loro compagni avevano scelto ramoscegli e fanghiglia. Eppure perseverò a osservare, curiosa come la Matrice da cui tutte erano sbocciate.

Finiti i loro lavori, Xish e Tenqar portarono i simulacri dei maschi nel punto in cui avevano visto i cervi accoppiarsi. Awyn non era più tornata dall'abisso, mentre Vlada osservava defilata la mostra delle sue sorelle. Quella sera la luna era piena e tracimante di luce, e a lei Xish rivolse la propria invocazione affinché la vita venisse infusa nel suo maschio. Il giorno dopo, quando il sole era al suo zenith, Tenqar fece lo stesso. Al tramonto seguente, due sussurri appena percepibili, uno che pareva soffiare dallo stanco sole sull'orizzonte, l'altro che sgocciolava dallo spettro della luna assiso dietro il velo del cielo, rivolgendosi a Xish e Tenqar nelle reciproche lingue dissero che non era saggio chiedere un dono che già possedevano. Dopodiché, le voci si estinsero e scese la notte.

Su quel responso Xish e Tenqar si interrogarono a lungo, senza tuttavia arrivare alla sintesi risolutiva. A un certo punto una accusò l'altra di essersi rivolta al nume celeste sbagliato, ingelosendo quello giusto e tanto animato fu il loro discorrere che si sarebbero giurate inimicizia se Vlada non le avesse interrotte con l'erompere della sua risata di scherno. "Il sangue" disse "il sangue è il dono, folli!". Quindi si morse la mano e dalla ferita lasciò sgocciolare a terra la rossa risposta al desiderio di vita, sì che le sue sorelle capissero la semplicità della soluzione e ne fossero al contempo umiliate.

Tutto ciò che Vlada però ricevette in cambio del suo aiuto fu ulteriore derisione, perché solo lei tra le quattro sorelle non era riuscita a crearsi un maschio. Mortalmente ferita nell'orgoglio, la pallida si ritirò sulle Montagne Nere, a covare sentimenti di potere nell'algida coperta della solitudine. Quella fu l'ultima volta che vide le sue sorelle.

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