mercoledì 25 novembre 2020

La Fioritura -LX-

 Se il vecchio aveva nutrito delle speranze per i suoi discendenti, giorno dopo giorno esse lo delusero. La razza dell'uomo era facile alla malattia, all'infortunio, alla morte; e quanto più questo diventava evidente, tanto meno uomini e donne riuscivano a onorare i precetti dei loro creatori, ché ordine e disciplina erano scomodi a esistenze fragili. Dunque assecondavano i loro stomaci ben oltre l'appetito, i loro lombi a prescindere dal desiderio, e per quanto riguarda le mani, essi le vedevano sempre misere e vuote, blandendo in questo modo l'avidità tipica dei Tenqar. Tutte queste cose il vecchio non potè vederle, giacché gli occhi aveva morti sul viso greve, ma se le faceva raccontare da Ulm'rahktan, che come lui mai si allontanava dal Trono Bianco.

"Un giorno ormai lontano, mentre io, gli schiavi e le loro compagne stavamo viaggiando verso il sole, sulla riva di un fiume vidi a un certo punto un fiore, tanto bello e rigoglioso che fui sul punto di versargli una lacrima; poi però mi accorsi che esso sorgeva in una piccola pozzanghera sul cui fondo si agitavano innumerevoli vermi. Allora ne versai due." raccontò il vecchio con asprezza "Indh ù 'igàn e le Ventisette Sale sono come quel magnifico fiore, e già vedo i vermi risalirne lo stelo. Dimmi, è questo il mio patrimonio?"

Il gatto restò seduto, osservando immagini visibili soltanto a lui. "Il fiore è bello nonostante i vermi. Anzi, lo è proprio in virtù di essi. Ma chi lo minaccia ha soltanto fame."

"Eppure i vermi non creano i fiori."

"Neanche tu." rispose Ulm'rahktan, asciutto "Ma so cosa vuoi dire. Se è la bellezza che adesso cerchi, essi già ne producono: non senti la musica dei loro tamburi nei giorni che hanno dedicato a te? Il tuo naso non percepisce i fumi dei loro pasti? E nemmeno ti rendi conto che quando sono insieme essi ridono, e cantano, e si raccontano le storie della loro creazione e delle tue imprese?"

"Tutto ciò che sento è un insieme di nomi che non comprendo. La loro lingua non è più la mia. Come mi chiamano?"

"I più giovani ti chiamano Qabanesh, "il caduto", perché la tua forma se la spiegano soltanto con una caduta da molto in alto; per i più maturi sei invece Manaroq, il "disceso" nella montagna; infine, Zeth Uawu vuol dire "trono bianco" ed è così che gli anziani ti identificano."

Così disse e il vecchio si placò, pur continuando a nutrire quei dubbi e quei sospetti che lo incupivano.

Il giorno della nascita della nona generazione di uomini, dal mare venne in visita a Indhogan la discendenza di Awyn: questi esseri minuti e dalla pelle bronzea, coi capelli crespi e gli occhi assai vispi, portavano in dono i frutti dell'acqua. In capaci recipienti vi erano pesci di ogni dimensione e colore, le cui squame brillavano al sole; attrassero l'attenzione dell'uomo con ricci e mitili, e infine li conquistarono con l'offerta di copiose quantità di perle e corallo. Per ringraziare fu indetta una festa, ché l'uomo per natura non ne era mai sazio, cui gli Awyn parteciparono con gioia. Le celebrazioni si consumarono in capo a sette giorni, al termine dei quali sui neonati fu imposta la benedizione del mare; poi, così com'erano venuti, i visitatori tornarono negli abissi e gli uomini che quel giorno li avevano conosciuti non li rividero più.

Il vecchio non tollerò che neanche uno tra gli stranieri fosse andato a salutarlo o a rendergli omaggio, ma Ulm'rahktan, che ormai aveva imparato a interpretare le sue espressioni, disse "Sono diversi da te, dai tuoi schiavi, dai Xish e dagli uomini. Sono creature semplici e giocose, la doppiezza dei Musubahe non gli appartiene, difatti credono che se non ti sei mosso dal trono è perché non avresti avuto piacere a conoscerli."

"E non hanno forse un signore cui obbedire?" protestò il vecchio, che era Manaroq, ma anche Zeth Uawu, ma in quel momento soprattutto Qabanesh.

"Hanno chi li ha generati. Awyn si è unita al suo maschio, cui ha infuso la vita e il nome di Llygaillachwa, che nella loro lingua significa "occhi di perla". Sono il padre e la madre di quella genia, amati fondatori, rispettati in quanto amorevoli."

Altri cicli passarono: gli uomini che avevano ricevuto la benedizione del mare crebbero e generarono dei figli, alcuni dei quali passarono questo dono ai loro successori e questi ai propri. All'alba della diciottesima generazione di uomini, i discendenti degli originari Doorlaq, i "baciati dalla spuma", si misero d'accordo per attuare un grande progetto e dopo aver convinto il resto del popolo essi lo realizzarono. In capo a qualche giorno, in Indhogan vi erano più canali di quante vene ci fossero in un uomo. Corsi d'acqua scorrevano tra le case e circondavano le Ventisette Sale, portando il mare là dove non avrebbe dovuto esserci. Questo però non irritò il vecchio, cui l'intraprendenza della razza umana iniziava a piacere.

Dai canali affiorarono gli Awyn e di nuovo fu celebrata una grande festa, finita la quale qualcuno di loro decise di restare a Indhogan, mentre qualcuno tra gli uomini prese le misteriose vie sott'acqua.

Venne la ventisettesima generazione di uomini e l'aria a Indhogan divenne carica di tensione. Il vecchio, che era preparato a quel giorno perché Ulm'rahktan aveva voluto che lo fosse, si alzò dal Trono Bianco e uscì dalle Ventisette Sale. Vederlo in piedi paralizzò gli uomini tanto quanto ciò che stava accadendo sopra le loro teste: una sfera di luce argentea campeggiava in un cielo terso, di un azzurro innaturale. Il vecchio non era però sorpreso, né turbato.

"Tu, che ti fai chiamare Manaroq, Qabanesh e Zeth Uawu, dicevi di aver compreso i Codici, ma gli atti tuoi e della tua discendenza ti tradiscono." dissero le due voci di Indh "Ora è tardi e subirai il mio tribunale. Sul Primo Codice: hai dato un nome alla terra, che già lo ha."

"No" rispose il vecchio "Ho dato un nome al palazzo e i miei discendenti lo hanno esteso alla comunità. Il nome è un omaggio a te, che ci hai concesso di stabilirci su questa isola."

Le due voci tacquero per un po', poi ripresero, più concilianti "Sul Secondo Codice: unendo con la forza i tuoi schiavi alle femmine Xish, hai loro imposto la copula."

"Gli schiavi non hanno volontà alcuna, né sentire, né pulsioni, ma sono nati per soddisfare le mie; e per quanto riguarda le Xish, ciascuna di loro ha scelto il proprio compagno nell'attimo in cui i loro piedi hanno toccato terra."

"Sul Terzo Codice" ripresero le due voci con ardimento "nella costruzione dei canali, l'Abbraccio è stato scisso."

"I canali portano l'acqua là dove la terra è asciutta, dunque l'opera non interrompe l'Abbraccio, ma lo estende."

La luce della sfera fremette e lampi improvvisi scaturirono dal suo centro. "Sul Quarto Codice: traviando la natura della tua discendenza, è stato loro insegnata una via per trascendere i limiti fisici della loro condizione. Essi infatti quando dormono non si limitano a riposare."

Il vecchio trasecolò, preso alla sprovvista, e in quel momento una voce spuntata dal nulla gli prestò soccorso, come da sempre faceva.

"Quest'accusa è rivolta a me," disse Ulm'rahktan "che agli uomini ho insegnato il sogno. Ora ascolterete le mie ragioni."

mercoledì 18 novembre 2020

La Fioritura -LIX-

Allontanandosi dal luogo che lo aveva visto perdente pur nell'ottenimento di ciò che voleva, il vecchio sentì su di sé attenzioni che lo turbarono, e le spalle curve e storte furono percosse da brividi. Non erano però gli sguardi dei suoi schiavi, le cui palpebre erano sigillate dal momento in cui Iskravul li aveva tratti dal fuoco della forgiatura; né le loro compagne, che essendo nuove a così ampi spazi senza alberi e a passeggiare anziché balzare, tutto osservavano fuorché lui, che su Ama Nundra Mun era la creatura più sgraziata e spiacevole. Stavano percorrendo una grande spianata di erba grassa e umida, accarezzata dal rumore degli insetti e di timide creature striscianti, ma benché fossero ormai molto lontani dal bosco dei Xish, l'ombra proiettata dall'albero dai fiori rosa ancora copriva il loro cammino. Quando finalmente ne uscirono, il vecchio fu liberato dalla cappa di disagio e allora seppe che gli sguardi malevoli erano venuti dai rami dell'albero, insieme all'ombra stessa, per ricordargli del patto che avevano stretto.

Camminarono a lungo, non avendo altro riferimento se non quello di evitare gli alberi e di non guadare i fiumi, ché il vecchio temeva di esserne travolto, e così si fece sera. La luna si alzò da dietro una collina e disse loro "Vi guido io", e il vecchio si fidò. Il giorno seguente, quando l'alba eruppe in gloria da oriente, il sole disse al vecchio "Raggiungimi" e l'altro, cui la luna aveva offerto un viaggio piacevole e privo di pericoli, a maggior ragione obbedì. Viaggiarono seguendo la luna di notte e il sole di giorno, e in capo alla settima alba si trovarono su una terra circondata dal mare, senza che il vecchio riuscisse a capacitarsi di come l'avevano raggiunta. Fu in quel momento, mentre i dubbi andavano formando il veleno nel sangue del vecchio, che le voci del sole e della luna formarono un coro e il coro disse. "In principio fui Indh, ora le mie due voci servono i Cinque Codici e così farete anche voi."

Tutto attorno il cielo si tinse di tramonto, nonostante il sole fosse appena sorto, e tale fu l'impatto di quel fenomeno che al vecchio sembrò che la luce stesse sanguinando. Rispose a Indh: "Enunciali dunque, i Cinque Codici"

"Primo: Ama Nundra Mun è il nome di ciò che state calpestando, avete calpestato e calpesterete, voi e i vostri discendenti. Il nome è uno e tanto vi basti. Secondo: ciò che unisce due entità si consuma nel sussurro che esse si scambiano. Terzo: l'acqua di Tlaotlican e la terra di Ama Nundra Mun si uniscono nell'Abbraccio. Mai nessuno osi dividerli. Quarto: la vita è soggetta a natura. Quinto: nel nome di Ar Tlanèrva vi è il Codice che unisce i Codici. Non lo invocate e non fatene effige."

Il vecchio, che aveva ascoltato in silenzio, alzò lo sguardo ai cieli grondanti di rosso e promise di aver capito. Dunque tornò il sereno azzurro del mattino, il vento e il rombo del mare sostituirono le due voci di Indh, e il vecchio si trattenne a godere della rinnovata quiete. Quando fu sicuro che non avrebbe ricevuto altre visite, e che dall'ultraterreno non sarebbero scesi altri moniti, tosto ordinò ai ventisette schiavi di costruire una dimora che fosse degna del suo potere e delle sue ambizioni, dotata di un trono confertevole e riccamente ornato. Questo ordinò e quelli eseguirono. Con le mani robuste scavarono nella terra e frantumarono la roccia, estraendone pietra e calce e marmo che caricarono sulle spalle possenti. Seguendo le istruzioni del vecchio, che aveva la scintilla di sua madre Tenqar nel sangue, eressero le fondamenta e su di esse stesero un pavimento di basalto; scolpirono i pilastri marmorei e li disposero nella sala a formare un cerchio, a imitazione del sole e della luna. Poi ciascuno degli schiavi tracciò il proprio spazio e così sorsero le Ventisette Sale, dove la discendenza del vecchio sarebbe stata concepita. Alla fine dell'opera, tutto fu coperto da tetti spioventi e arricchito di porte e lucernari, dunque venne il tempo di sugellare la dimora col suo pezzo più pregiato: i ventisette schiavi portarono il trono in pietra calcarea che avevano scolpito assieme, di un bianco abbacinante, e lo posero al centro della grande sala. Sul pavimento di nero basalto la sua luce parve farsi ancora più violenta, e il vecchio senza attendere oltre vi prese posto. Il suo pallore si perse nella pietra, che a sua volta era tributo non soltanto al sole e alla luna, ma anche al fiume di latte nella montagna nera, al cui corso si era affiancato per completare la discesa.

Al centro dell'isola sorse dunque il palazzo delle Ventisette Sale, ma il vecchio lo chiamò Indh ù 'igàn, "le voci di Indh".

Dal trono accecante, ordinò poi agli schiavi di accoppiarsi con le loro compagne e questo diede origine alla prima generazione di creature assai particolari: questi esseri erano più chiari dei padri e assai meno scuri rispetto alle madri; gracili, chiassosi alla nascita, bisognosi di cure continue, sortirono nel vecchio sentimenti di delusione e ribrezzo. Accanto al trono vi era però Ulm'rahktan, sornione come solo un'incarnazione della notte è capace di essere.

"Essi cresceranno."

"Se anche crescessero fino a toccare con la punta del naso la vetta del mio palazzo," protestò il vecchio "già a guardarli prevedo che non saranno mai belli come le loro madri, né forti come i padri"

Ulm'rahktan lo guardò "Tu non sei nessuna delle due cose, eppure vivi in un palazzo e siedi su un trono."

"Dici bene" ammise il vecchio, e attese. Anno dopo anno, la discendenza crebbe in vigore e bellezza fino a raggiungere le dimensioni di chi li aveva generati. Dalle madri impararono la lingua Xish e l'arte della caccia, dal vecchio la lingua di Tenqar e le tecniche di costruzioni. Dai padri, soltanto a obbedire al Trono Bianco. Le due lingue furono poi unite a formarne una tutta loro, tale che Indh ù 'igàn divenne Indhogan, che da quel momento non indicò soltanto il palazzo delle Ventisette Sale, ma anche le dimore che i discendenti si costruirono attorno a esso. Questa fu l'alba della razza dell'uomo e Indhogan la sua culla.

mercoledì 11 novembre 2020

La Fioritura -LVIII-

 Le parole del vecchio non potevano essere comprese dalla genia di Xish, ma l'intervento di Ulm'rahktan fece in modo che ciò potesse avvenire. Parlando nella lingua che Mamath gli aveva insegnato, e che lei a sua volta aveva bevuto dal Raama Toi, garantì che tutte le orecchie recepissero lo stesso messaggio, ma pulito dal comando che il vecchio gli aveva impresso. Allora si alzò un velo di vento e tutto quello che avveniva sui rami e al riparo del fogliame fu coperto. Quello era il segnale per l'inizio di un consulto tra Gan Haji e Musubahe, perché se c'era qualcosa cui tenessero almeno quanto la vita sugli alberi, essa era la segretezza. Quando il vento si placò, il maschio e la femmina del Samenaka alzarono di concerto lo sguardo ai rami sopra di loro, poi dissero qualcosa tenendo la voce molto bassa.

Ulm'rahktan lo tradusse al vecchio: "Avrai ciò che hai chiesto, in nome del sangue che ci accomuna. Ma la tua discendenza si tenga lontana dai boschi, le foreste e le giungle del mondo."

Al vecchio parve intollerabile di essere minacciato e fu sul punto di scatenare i suoi schiavi, ma la chiosa di Ulm'rahktan lo fermò "Questa non è una trattativa. Prendi ciò che ti offrono."

L'altro non si convinse del tutto, quindi parlò la piccola Yu Zi, che diversamente dai suoi simili aveva la pelle color della resina, anziché scura come corteccia, e i capelli ramati come scorza di castagna. "Perché non hai fiducia?"

"Perché loro mi temono, dunque cercano di trarre un vantaggio dalla mia pretesa. Se accettano di darmi le loro femmine, allora che sia io a sceglierle." rispose il vecchio.

Yu Zi scosse la testa, e anche allora non smise di sorridere. "Per sceglierle hai bisogno di vederle, e per farsi vedere devono scendere dagli alberi. Ma noi non scendiamo dagli alberi, se non per cacciare e per il Samenaka. Chi per altri motivi abbandona gli alberi, non può più tornare indietro. Per questo, non puoi sceglierle tu."

Una volta che Ulm'Rahktan finì di tradurre, il dito rattrappito tremando la indicò "E tu, allora?"

La piccola capì il senso della domanda senza bisogno dell'aiuto del gatto, cui rivolse un cenno d'intesa.

"Di lei non ti dovrai preoccupare" disse Ulm'rahktan "come te, non fa più parte della genia da cui discende. Se questa affinità per te non è sufficiente, allora pensala come un'estensione del tuo potere e rivolgila verso i tuoi scopi."

Il vecchio capì. "Allora sceglierà lei le femmine" disse, e siccome il gatto tacque continuò nella sua asserzione "ma se ella è una reietta, non le obbediranno"

"Come ho detto, di lei non ti dovrai preoccupare"

Arrivati alla sintesi, il loro accordo mosse Yu Zi tra le lame di luce lunare che a malapena si facevano largo attraverso il fitto fogliame della foresta. Sotto l'albero dei Musubahe, scandì a voce alta ventisette parole, che erano i nomi delle ventisette femmine scelte per accontentare le ambizioni del vecchio. Una dopo l'altra scesero a terra, e ignorando Yu Zi si diressero incontro ai ventisette schiavi, scegliendoli con scrupolo come propri compagni. Ben più alte di loro, davano però l'impressione di essere leggere e fragili come illusioni. Il vecchio le guardò come si guarda un miracolo, senza poter reprimere il germogliare di una terribile invidia. Ma Yu Zi era di nuovo al suo fianco, sempre veloce nel pensiero e nelle azioni, e gli strinse la mano debole e fredda.

Lui fissò quel poco che di lei riusciva a vedere. "Ora che ho quello che volevo, voglio qualcosa di cui non credevo di aver bisogno" le disse. "Condividerò il potere con te, se tu verrai con me"

Stavolta, Yu Zi rise in maniera diversa, perché la gioia aveva lasciato spazio all'irrisione. Al vecchio questo non piacque e Ulm'rahktan lo apostrofò "Ti avevo detto di non preoccuparti di lei."

Il gatto poi tese l'orecchio a una brezza leggera proveniente dalla foresta, quindi annusò l'aria alla ricerca di altre sfumature. "I Musubahe ti invitano ad assistere al rito della Samenaka."

Tronfio della vittoria e di quello che sembrava un riconoscimento di superiorità, il vecchio accettò la richiesta e guardò là dove ancora stavano il maschio e la femmina del rituale. Essi, come riprendendo una danza da dove era stata interrotta, insieme percorsero la distanza che li separava dal tronco dell'albero dai fiori rosa. Al loro approssimarsi, su di esso si aprì una fessura molle e traslucida, come se non fosse stata fatta di rigido legno, ma di carne. Solo a quel punto, il maschio si tolse il manto di pelliccia e lo pose sulle spalle della compagna, come tante generazioni addietro aveva fatto il maschio di Xish. Consumato il rito, entrarono nella fessura e una volta dentro ne vennero ricoperti per intero, e il tronco tornò ad avere la forma e consistenza che lo accomunava a tutti gli altri alberi. Quello era il Samenaka, la "semina" secondo la genia di Xish.

"Tra qualche tempo," disse Ulm'rahktan al vecchio, che non riusciva a riaversi dalla meraviglia "l'albero fiorirà, poi verranno i germogli e infine i frutti. Quando essi saranno maturi, in estate, cadendo a terra si apriranno e dal loro interno sorgerà una nuova generazione. Così si perpetua la genia di Xish. Così le foreste e i boschi e le giungle saranno popolati."

A quelle parole, il vecchio capì che non avrebbe mai potuto espandersi come e quanto loro, e comprese di conseguenza per quale motivo lo avevano invintato ad assistere al Samenaka. Ora che infatti la frustrazione, il senso di impotenza e inferiorità gli avevano in egual misura appestato il sangue, il sacrificio delle loro femmine era stato ripagato. Si volse come una furia, accompagnato dagli schiavi e dalle nuove compagne. Senza attendere Ulm'rahktan, presero la direzione a meridione, verso lande più calde, dove i suoi piani sarebbero stati approntati.

mercoledì 4 novembre 2020

La Fioritura -LVII-

 Il vecchio e Ulm'rahktan si incontrarono all'ombra del grande albero dalle rosee fronde, lì dove Mamath aveva ingannato gli uccelli benedetti da Drà, e dove poi, molto tempo più tardi, Xish e il suo maschio si erano uniti dando origine alla propria genia. Il gatto accennò agli alberi dietro di lui e avvertì che i Gan Haji, i "senza ali", li avrebbero osservati da lì in avanti. Dunque il vecchio passò tra gli ampi tronchi con una reverenza di cui non si credeva capace, approfondita dalla stortura del corpo, ma smorzata dalle occhiate che lanciava rade verso l'alto. Mentre lo precedeva, Ulm'rahktan raccontò di Xish, sorella di Tenqar che come lei aveva costruito un simulacro consacrandolo alla notte. Non lo disse per ferire e difatti il vecchio non ne fu ferito, ché ormai senza legami. Quando arrivarono dinanzi a un grande tronco chiaro, dalla corteccia stillante resina e le foglie sottili e tonde in punta, Ulm'rahktan disse che quella era la casa dei Musubahe, perché "annodato" portavano il crine nerissimo e alto sulla testa in complessa acconciatura. Essi detenevano l'onere di assegnare un luogo alla nascita di ogni nuovo albero, quindi la funzione che esso avrebbe espletato per la comunità e infine un gruppo di Gan Haji preposti a custodirlo. Il bosco cresceva secondo il loro volere, ma assecondando il respiro delle stagioni, sicché non nascevano più alberi di quanti la terra potesse nutrirne, ma accelerando lentamente questo avveniva con costanza.

Al desiderio che il vecchio espresse di conoscere i Musubahe, la risposta di Ulm'rahktan fu perentoria: "Questo popolo scende dagli alberi soltanto per cacciare, arte in cui sono e saranno ineguagliati, e per il rito del Sanemaka, che avverrà stanotte."

Alché deluso e amareggiato, il vecchio gli volse le spalle e riprese la direzione da cui era venuto; avvenne però che quando aveva quasi raggiunto i suoi ventisette schiavi, che lo avevano atteso fuori dal bosco, una creatura bassa e minuta gli si fece incontro sbucando da dietro il tronco del grande albero dai fiori rosa. Essa lo guardò con un'espressione che il vecchio non aveva mai visto, e a cui, scoprendosi vulnerabile, reagì ordinando agli schiavi di ucciderla.

"Lei è Yu Zi" disse Ulm'rahktan, venendo dal nulla come il suo nome prescriveva. "significa "lì a terra" nella lingua dei Gan Haji. La spregiano così, appellandola come per indicare un sasso, o una foglia secca. Odiano il suo essere legata al suolo, invece che alle alte fronde dove il resto del suo popolo ama vivere."

"Perché mi guarda in quel modo? Sta forse esercitando un sortilegio?" chiese il vecchio, che a malapena riusciva a trattenere l'ordine dato ai ventisette.

"Ti sta sorridendo. È un uso soltanto suo ed è innocuo." spiegò il gatto, inclinando la testa verso il sole che stava tramontando a oriente. "Per ora."

Allora il vecchio alzò la sua unica mano e gli schiavi si fermarono senza sussulti, come steli di pianta all'alba, quando il vento ancora dorme. Zoppicando si avvicinò alla piccola e tuttavia non le parlò, non soltanto perché era sicuro che non potesse capirlo, ma soprattutto per via di quell'espressione che ancora lo turbava. All'improvviso sospettò che Ulm'rahktan gli avesse mentito e la rabbia lo assalì. Yu Zi mormorò qualcosa nella sua lingua, con la voce giovane e il tono scanzonato, per niente intimorita dal sinistro straniero.

"Chiede perché ti crucci, tu che sei potente" disse Ulm'rahktan.

Il vecchio rispose che gli era stata promessa una discendenza e che se non l'avesse ottenuta avrebbe fatto schizzare il loro sangue fino ai rami più alti, poi quegli alberi sarebbero caduti e la stessa sorte sarebbe stata inflitta ai Gan Haji e ai Musubahe. Promise rovina a quella terra e a tutte quelle intorno, fino ai limiti del conosciuto e oltre esso. Ebbro di livore proferì anatemi gonfi di oscenità e a un tratto ebbe a evocare il ritorno di X'En, la Fiamma Immortale che tutto il cosmo aveva quasi ridotto a sacra vampa, senza sapere come facesse a conoscerlo e perché il suo nome gli fosse saltato sulla lingua. Tutte queste cose Ulm'rahktan le tradusse a Yu Zi e lei ancora sorrise.

"Dice che se vuoi riprodurti, a momenti, quando la pupilla bianca sarà alta tra le stelle, sarà celebrato il Sanemaka."

Il vecchio osservò a lungo il gatto e seppe che non stava mentendo. Decise dunque di aspettare che arrivasse la sera e in particolare il momento che Yu Zi aveva descritto. Quando arrivò, il vecchio non ebbe nemmeno bisogno di guardare in cielo, perché ciò che stava succedendo tra gli alberi non poteva essere altro che qualcosa di unico. Ai piedi dell'albero dei Musubahe, stava una figura alta e snella che prese la carne del vecchio senza nemmeno accorgersi che egli esistesse. Bella oltre ogni misura, i lunghi capelli neri la coprivano fino ai piedi e allungati erano gli occhi sotto la fronte ampia. Il vecchio la volle per sé e si mosse per andarle incontro, ma scorto un movimento tra gli alberi dietro la bella, subito si arrese: una figura altrettanto alta, se non di più, occupò il nastro di luce lunare insieme alla femmina. Portava un manto di pelli di lupo, con due conigli sulle spalle e la candida pelliccia di una volpe bianca attorno al collo.

Yu Zi indicò la coppia e sussurrò al gatto qualcosa di inappropriato, ridendone subito dopo.

"Ti avverte che se non ti sbrighi a prenderla, il maschio la porterà nel tronco dell'albero dai fiori rosa e lì avverrà il Sanemaka"

Vista l'occasione, il vecchio fu sul punto di coglierla, ma un pensiero gli rosicchiò la testa ed esitò. Alzata allora la testa verso i rami, da cui ancora sentiva arrivare l'attenzione dei Gan Haji, disse ad alta voce. "Voi non mi avete salutato, benché io eserciti il potere. Ascoltate allora quanto ho da dire"

A queste parole la femmina e il maschio si voltarono, e dalle fronde del bosco scese un fremito nervoso, un bisbiglio indistinguibile dalla brezza.

"Datemi tante femmine quanti sono i miei schiavi, sì che il mio impero si possa imprimere sulla terra con una discendenza e un regno."

mercoledì 28 ottobre 2020

La Fioritura -LVI-

 Il giorno che Nilqa tornò dai suoi fratelli, essi non lo riconobbero. Decrepito era lo straniero ai loro occhi, torto come ramo nodoso e monco a destra. Una schiera di ventisette grigi esseri lo accompagnavano quieti, assuefatti all'obbedienza e sicuri nel passo pur avendo serrate le palpebre. Le generazioni di Tenqar li circondarono e si rivolsero al vecchio, giacché avevano riconosciuto in lui una guida.

"Perché vieni alle nostre dimore?" chiese qualcuno.

"Da quale sangue discendi?" chiesero gli altri, che erano la maggior parte.

Appesantito dalle spalle rigide, consumato in statura dalla pena e dalla deformità, il vecchio poté soltanto alzare lo sguardo verso le voci dei suoi consanguinei. Ne scrutò il vuoto, perché i suoi occhi erano stati spenti dal fuoco di Iskravul. Ma anche senza vederli, li sapeva giovani e forti e per questo li detestò. Il suo risentimento coprì l'ultimo guizzo di intelligenza con un velo che sarebbe da allora divenuto eterno sudario. "Miseri" sibilò "coloro che non riconoscono un fratello. E misero me, che vi conosco oggi"

Allora, mentre lo sconcerto soffiava di bocca in bocca, Nilqa sussurrò qualcosa di losco alle orecchie dei grigi e questi subito si mossero. Come un sol corpo strapparono le teste dai figli di Tenqar, deponendole ai piedi del loro padrone mentre gli altri correvano a chiudersi nelle loro dimore. Non ci fu però rifugio tanto solido da non crollare, porta che non fu sfondata, supplica che venne ascoltata. Legati al sangue con cui erano stati temprati, i grigi portarono l'orrore sulle otto generazioni e la desolazione su ciò che esse avevano costruito. Infine, fedeli al loro mandato, trascinarono Tenqar e il suo maschio ai piedi di Nilqa, preso fino a quel momento dal placido contemplare della sua volontà.

"Cos'altro vuoi che non ti sia già preso?" pianse Tenqar, che parlava a Nilqa ma si rivolgeva agli occhi vitrei dei suoi figli, le cui teste giacevano lì davanti impilate.

"Ho perso quasi tutto e sono il più potente tra i potenti del mondo." rispose Nilqa senza guardarla. "Ho perso quasi tutto, madre."

Tenqar dunque incanalò tutta la contrizione nella pronuncia del più penoso tra gli anatemi. "Perché i sette con cui sei venuto alla luce ora tu li hai distrutti, non sei più Uno di essi, e il nome che ti ho donato, io me lo riprendo."

Dalle labbra secche il vecchio espirò "Uno di sette" e da allora mai più lo disse né lo pensò, e tantomeno avrebbe permesso ad altri di farlo in sua vece. Restituito che ebbe il retaggio a sua madre, diede ordine ai suoi schiavi di uccidere lei e il maschio e quelli eseguirono nella connaturata brutalità, separandoli dalle teste intrise di paura. Così scomparve la genia di Tenqar e con essa la laboriosa fornace che aveva prodotto l'architettura di dimore robuste e tetti impenetrabili, fiore splendido nel giardino di un mondo giovane, ma appesantito e poi soffocato da infida malerba. Quando tutto fu silenzio e i muri delle grandi case scomposti tumuli sulla mattanza, il vecchio sentì farglisi vicino qualcuno, che non poteva essere uno dei suoi schiavi perché essi si muovevano solo quando lui lo comandava. "Cosa pensi?" chiese.

"Questo io lo avevo già visto, quindi vi ho creduto" rispose Ulm'rahktan "ma avendo adesso toccato, non posso dire di aver conosciuto."

Il vecchio ignorò le implicazioni di quei pensieri e disse "Tu e Iskravul mi avete rivelato che avrò discendenza. Mostrami come."

"Allontanati da questo luogo e continua a camminare. Quando sentirai di nuovo la mia voce, sarai arrivato."

L'altro obbedì a malincuore, perché sapeva di non avere scelta, e rimpianse il potere che ancora non possedeva. Si volse e intraprese il viaggio nella maniera in cui il gatto aveva precettato, senza farsi prendere da dubbi o reticenze, seppellendo le domande insieme ai rimorsi e alle memorie.

Lasciato solo all'incombere della notte, Ulm'rahktan produsse col suo canto un velo di pietà e con esso avvolse i corpi e le teste della genia di Tenqar. All'alba, il velo fu lacerato dai becchi di una torma di uccelli dal gracchiare vivace e lo sguardo intelligente, taluni interamente neri, altri invece imbastarditi da una chiazza bianca sul corpo; tutti erano l'incarnazione del momento più caro nella memoria di Ulm'rahktan, quando ovvero Mamath si era fatta corvo. Amandoli come aveva amato lei, insegnò loro il canto e la lingua dei dràna, ma per quanto ci provasse non riuscì a liberarli dall'appetito per il metallo, il cui lucore li attirava tra le macerie. Lasciandoli allora a conciliare la vecchia natura con la nuova, andò col pensiero là dove lui e il vecchio si sarebbero rivisti e in un attimo fu all'ombra del grande albero dai fiori rosa, circondato da altri alberi più bassi e tuttavia imponenti. Questi erano i palazzi del popolo dei Xish, e mentre dall'alto fogliame e dalle fessure nelle cortecce percepiva i loro sguardi più intensamente di uno scroscio di pioggia autunnale, da ponente scorse l'arrivo del vecchio e dei suoi ventisette schiavi.

mercoledì 21 ottobre 2020

La Fioritura -LV-

 Guidati da Iskravul, la cui chioma avvampava senza bruciare, Nilqa e Ulm'rahktan abbandonarono il campo di spighe e percorsero uno stretto corridoio di roccia calcarea costeggiato dal nulla, e al nulla diretto. Nel percorrere l'angusta via, Nilqa ebbe l'occasione per riprendere il controllo dei suoi pensieri e delle sue pulsioni, facendosi di conseguenza più fosco; tutto ciò che sarebbe stato da quel momento in avanti gli divenne chiaro. La risonanza del male appena gemmato rizzò i peli sulla schiena del gatto che lo precedeva innanzi, seguendo l'imperturbabile Iskravul nella tenebra ricacciata dall'avanzare del suo straordinario pallore. A un tratto, il buio si spalancò come una porta e rivelò il mondo che fino ad allora aveva nascosto: una distesa di ruggine e sabbia ospitava monoliti alti fino al cielo, popolato di stelle che avevano la forma e il colore del fogliame boscoso; al limitare di questa terra scorreva il fiume che Nilqa aveva sentito mentre scendeva la montagna, e che ai suoi occhi appariva bianco e denso.

"Cos'è quel fiume?" chiese, ignorato.

Iskravul poggiò un ginocchio in terra, affondò la mano nella sabbia e ne trattenne un pugno. Si avvicinò quindi a uno dei monoliti e lo percosse con la ruggine che aveva sottratto al suolo. A ogni colpo, il monolite si destava come da un sonno, e dalla pietra esalavano respiri incandescenti. Rapito e al contempo sconcertato da questo processo, Nilqa fu dilaniato tra la necessità di sapere e il desiderio di non mescolarsi a quella blasfemia, e dunque passò oltre per avvicinarsi a ciò che in principio aveva attratto i suoi sensi e che continuava a chiamarlo col tuono del proprio corso. Il fiume bianco scorreva con impeto nella valle rugginosa, incanalato verso una meta sconosciuta e tuttavia rispettoso dei suoi argini. Una volta sulla sponda, Nilqa ebbe molta difficoltà ad accovacciarsi per osservare il fiume da più vicino, ché le ossa gemevano ormai come legno marcio. Prima però che il dito avvizzito toccasse la bianca superficie, Ulm'rahktan lo interruppe chiamandolo piano. "Nilqa" disse "perché non credi a ciò che vedi?"

Nilqa annaspò con fatica, senza riuscire a tirarsi su né a chinarsi ulteriormente: "Al vedere, io credo. Al toccare, io conosco."

Allora il gatto inclinò la testa su un lato, osservandolo con stupore verace "Ma tu lo sai, figlio di Tenqar, che questo è latte. Lo riconosci dall'aspetto, lo senti dall'odore, eppure dubiti."

"Cosa c'è di male nel dubbio?" rispose il vecchio, i cui occhi mai abbandonavano il flusso del fiume "dubitare non ruba valore alla materia, ma le restituisce una promessa di prospettiva."

In quell'istante, fu come se tra gli occhi già prodigiosi di Ulm'rahktan se ne fosse aperto un terzo, quello che Mamath aveva fatto nascere e che in seguito alla di lei distruzione si era chiuso. Pur nel desiderio viscerale di rispondere, il gatto scoprì di non poterlo fare, perché il ricordo dell'amore pulsava ancora come carne lacerata e la mestizia gli aveva soffocata la voce. Così si limitò a osservare Nilqa nell'atto di toccare il latte, cosa in cui sarebbe riuscito se qualcos'altro alle loro spalle non si fosse imposto con forza. Prima li toccò una prepotente vampa di calore, poi una luce fredda invase terra e volta celeste rendendole sue pallide propaggini, tanto che financo il fiume latteo cessò di essere il pezzo più brillante di quel luogo. Iskravul aveva fatto del monolite una colonna di fuoco assai alta e vitale, e nel guardarla per il tempo di un battito di ciglia Nilqa aveva già perso parte della propria vista. Coprendosi gli occhi doloranti, si avvicinò al grande fuoco e chiese a Iskravul dove fossero gli schiavi promessi.

Il figlio di Vlada, che nelle iridi aveva sangue e fiamme in egual misura, guardava nel suo abbacinante monumento come Ulm'rahktan nelle tenebre. Prese poi la mano di Nilqa e lo forzò ad avvicinarsi alla luce, senza rispondere o pronunciare formule rituali. Per quanto però Nilqa cercasse di resistere, la sua miseria non gli permetteva di contrapporsi al potere di Iskravul, che senza sforzi gli spinse la mano nella colonna di fuoco. Il vecchio soffrì un tormento più intenso e feroce dello stesso braciere, gridò al cielo, pianse con amarezza e persino arrivò a pregare Iskravul di risparmiargli la pena, ché la ricompensa non ne era all'altezza; ma il figlio di Vlada attese fintanto che doveva, tenendo nel fuoco ciò che restava dell'arto finché non ci fu più nulla da bruciare e Nilqa cadde a terra, con un moncherino carbonizzato al posto del braccio.

La colonna di fuoco arse appagata, soffiando verso le stelle. Iskravul immerse le braccia in essa e dopo aver trovato qualcosa cui aggrapparsi, strattonò con tutta la forza di cui il suo corpo traboccava e dalle fiamme fu così estratto il corpo del primo schiavo. Egli era di un colore esangue, spento come metallo inerte, e gli occhi teneva chiusi perché non aveva ricevuto ordine di aprirli; non portava i segni del fuoco, né sul volto la sofferenza cui il suo padrone era invece soggiogato. Come lui un altro schiavo fu tratto dal fuoco, poi un terzo e altri ancora, e a ogni estrazione la colonna si abbassava e appassiva, diventando una languente brace poco più calda dei corpi che aveva forgiato, ormai moribonda quando l'ultimo degli schiavi fu estratto. Privato della luce delle fiamme, Nilqa si sentì circondato da sagome cui non riusciva a dare contorno né senso, e dunque si rivolse a Ulm'rahktan, che sapeva essergli vicino. "Chi sono questi che mi fissano senza guardarmi? Perché non hanno l'odore dei vivi?"

"Hai ciò che hai chiesto" rispose il gatto, provocando sul viso di Nilqa una contrazione orrenda.

"Perché mi hai ingannato, figlio di Vlada?" gridò Nilqa, deturpato tanto dalla rabbia quando dal dolore "Come farò a ottenere ciò che voglio senza la mia mano forte? E come farò a godere della mia opera, se a causa del tuo sortilegio non vedo più?"

Iskravul, che si era deterso il sudore dalla fronte per la spossatezza della forgiatura, non rivolse sentimento alcuno al povero vecchio che lo aveva apostrofato, ma parlò con la calma che era sua tempra e materiale, come il metallo lo era per le sue opere. "Ti ho dato ventisette schiavi, ognuno di essi dotato di ciò che tu ritieni io ti abbia sottratto. Soltanto la voce ti è necessaria per comandarli e quella la conservi insieme al senno. Tu sei invero la creatura che ha di più, e ti lamenti come se disgrazia fosse tua madre."

A quelle parole il querulante non osò contrapporre fiato: non un'altra lamentela o un doveroso ringraziamento, e nemmeno un commiato. Ordinò ai suoi servi di aiutarlo ad alzarsi e una volta in piedi si rivolse a Ulm'rahktan "Conosci la strada del ritorno?"

"La conosco" disse il gatto.

"Allora sono io a chiederti compagnia, questa volta"

"Segui il corso latteo, ma resisti alla tentazione di bervi." lo avvertì Ulm'rahktan.

A Nilqa quelle parole per una volta bastarono e le portò con sé, mentre il rombo del bianco fiume lo conduceva lontano dal luogo del suo supplizio. Una volta che fu distante, seguito da quelle mute ombre che erano i suoi schiavi, Iskravul si rivolse finalmente a Ulm'rahktan "Se egli possedesse il mondo, o se fosse capace di crearne uno di suo gradimento, poi guarderebbe alle stelle con stupore e invidia, e tutto ciò che fino a quel momento gli ha dato felicità e ricchezza diverrebbe polvere."

Il gatto tacque e Iskravul capì che non aveva nulla da obiettare, perciò continuò "Perché allora lo segui, maestro?"

La risposta di Ulm'rahktan si legò al suono dei passi lontani, restando viva mentre lui si confondeva alla tenebra. "Una promessa di prospettiva"

mercoledì 14 ottobre 2020

La Fioritura -LIV-

 Pur avendo da poco iniziato il viaggio insieme, Nilqa e Ulm'rahktan furono presto soffocati dalla ricchezza che il corpo della montagna ospitava, e che come essa traeva bellezza dalla sua natura immobile. Dapprima, siccome erano ancora alti, passarono tra due feritoie, poste agli opposti lati della scala, che scambiandosi aliti di vento dall'esterno sembravano produrre bassi bisbigli di segretezza. Nilqa cercò di carpirne i segreti, ma per quanto si sforzasse non era capace di tradurre ciò che sentiva, e dunque pur ammirando la perfetta casualità che aveva dato i natali a quel fenomeno, maledisse la volontà che aveva prodotto la luce tenendo all'ombra chi avesse cercato di carpirla. Questo lo fece ad alta voce, lamentandosi col suo silenzioso compagno di viaggio; Ulm'rahktan dal canto suo pensò che soltanto gli esseri incapaci di udire il Coro vedessero caso e volontà non soltanto uniti nel concetto, ma finanche dipendenti l'uno dall'altra, e provò pena per quella sofferenza.

La scala li condusse poi per un largo antro che assorbiva ogni rumore e in cambio dava ineluttabilità, senso di fine, come bocca di feroce creatura. Eppure, sebbene fossero arrivati assai lontani dalla sommità del percorso, dove la luce emanata dal sole di metallo andava spegnendosi, ogni forma aveva superficie visibile e angoli ben delineati. Nilqa ne fu contento, perché la vista gli era debole e i piedi malfermi, ma nell'attimo in cui l'equilibrio mancò strattonandolo verso il buio lato della scala, la mano si poggiò su una parete che fino a quel momento aveva creduto essere il vuoto. Ulm'rahktan notò la sua meraviglia e gli disse che un giorno i suoi discendenti avrebbero lavorato quel materiale, e che ciò li avrebbe arricchiti ed elevati; ma Nilqa capì di non poter aspettare, ché la scoperta doveva essergli subito assecondata e il possesso garantito. Allora Ulm'rahktan lo ammansì rivelandogli che quanto aveva bramato fino a quel momento, dal sole di metallo alle feritoie sussurranti, finanche alla scala declinante al misterioso fondale, erano artefatti il cui creatore giaceva al termine del viaggio. Rinfrancato dalla lieta novella, perché assai più preziosa dei tesori stessi, Nilqa proseguì la discesa senza altra rimostranza proferire, pur lanciando rade occhiate al sole di metallo, come un viaggiatore alla stella di casa, e tenendo la mano nodosa sulla parete che costeggiava la scala, quasi a sincerarsi che non fosse frutto di un'illusione.
Giù per la gola della montagna arrivarono ai suoi tetri intestini, dove il lembo di luce loro anfitrione spirò, lasciando al suo posto l'eco di un rombo gorgogliante e soffocato. Nello sconforto della cecità, Nilqa pretese di sapere da Ulm'rahktan dove si trovassero e cosa fosse quel suono. Essendo incarnazione della notte, il gatto non condivideva il disagio del suo compagno per la tenebra, e disse "C'è un fiume che scorre dietro la roccia e ciò che tu senti è il suo respiro. Serve a condurti dal suo creatore."
Placato il fuoco del tormento, il vecchio però ebbe a fargli notare che il suono non era utile a camminare nel buio, tanto più su una scala.
"Dunque, dopo aver sacrificato la tua giovinezza, il tuo vigore e la tua grazia, camminare al buio ti sembra spaventoso?"
Così rispose Ulm'rahktan e l'altro con saggezza ingoiò la bile. Tenendo le orecchie ben tese al respiro del fiume, discesero la scala senza sapere se all'esterno fosse giorno o notte, senza intuire se gli alberi avessero iniziato a fiorire o ad appassire, perché lì dov'erano tutto era sospeso. Ogni cosa era cristallizzata nella sua propria assenza, eccetto che il suono del fiume, che stava iniziando ad affievolirsi; e tanto meno era ghermito dalle orecchie, quanto più ai viaggiatori si manifestava la fine della scala. Era un pezzo di terra circolare abbracciato dal vuoto, e in esso iniziavano ad affollarsi alte spighe color del sole. Senza sapere se fossero esse stesse fonte di luce, o la traessero da un misterioso dove, Nilqa scoprì che il solo ammirarle aveva lenito i dolori del viaggio e della sua infausta condizione. Poi vide che tra le spighe si aggirava qualcuno, bianco come la neve e dai capelli di un rosso inconfondibile. Subito lo chiamò "Figlio di Vlada!" ed egli si girò, in attesa. Quando Nilqa lo raggiunse e potè guardarlo meglio, vide che anche i suoi occhi erano pregni del color del sangue e ne fu intimidito.
"Invero sono Iskravul, figlio di Vlada"
Il vecchio si profuse in un saluto rispettoso e si presentò come "Figlio di Tenqar, Uno dei sette primogeniti", ma Iskravul non ne fu colpito e disse solamente "Tu sei colui il quale ha camminato sui capelli di mia sorella Zernavul. Gli altri titoli non mi interessano"
Nilqa guardò Ulm'rahktan, fino a quel momento silente e ignorato dal figlio di Vlada, e pretese di sapere come fosse stato possibile creare il sole di metallo, di cosa fosse composta la parete che lo aveva salvato dalla caduta e che cosa fossero quelle spighe luminose in cui erano immersi. Tutto questo voleva conoscere, ma Iskravul gli guardò a fondo negli occhi stanchi e annuì tra sé e sé, trattenendo nel silenzio valutazioni molto severe. Poi rispose.
"Io e te condividiamo un'ascendenza, giacché sono tuo fratello per parte di padre. Quello che io posso creare, tu e i tuoi discendenti potrete farlo con altrettanta perizia"
Nilqa assorbì la rivelazione come acqua che ingloba un sasso in essa caduto: dopo un'increspatura leggera, figlia della sorpresa, la sua ambizione tornò a equilibrarsi prendendo il sopravvento su quanto era rimasto degli altri sentimenti. "Dimmelo, Iskravul"
Il figlio di Vlada si avvicinò al vecchio col suo corpo vigoroso, svettando sulla carne rovinata del suo ospite e nelle iridi sanguigne il risentimento guizzò come scintilla. "Di tutte le cose che chiedi, solo una te ne darò, perché sei mio fratello. Ma essa sia anche il prezzo da pagare affinché io non ti veda mai più, quindi decidi con attenzione la tua prossima richiesta"
Nilqa non ebbe alcun dubbio e chiese chiaramente "Col metallo che io desidero, forgiami una pletora di schiavi obbedienti, perché il metallo da solo può cambiare padrone, ma essi non lo faranno"
Sentita la richiesta, né Ulm'rahktan né Iskravul mostrarono sorpresa alcuna, ma anche allora non si scambiarono sguardi o verbo. Le spighe oscillarono piano, come obbedendo al sospiro che uscì dalle labbra del figlio di Vlada.
"E sia."