mercoledì 29 luglio 2020

La Semina -XLIII-

Dopo aver seguito l'errare del maiale con occhi privi di luce alcuna, Mamath nutrì pensieri che trascendevano la natura e l'ordine delle cose, e si mosse per raggiungerlo. Quello, che non percepì il pericolo giacché era convinto che la creatura appena incontrata, per quanto bizzarra, fosse più pericolosa per se stessa che per gli altri, decise che la ricerca di nutrimento fosse più importante e la ignorò. Mentre si avvicinava, Mamath intuì la fioritura di un cambiamento prima ancora di percepirlo sui sensi: qualcosa si era imposto tra lei e l'animale come un sentiero di terra su un fiume altrimenti inguadabile, aveva sfilacciato le loro spiritualità vestigiali per allacciarle in una corda, eterea ma potente. Mamath continuò a camminare senza sapere se ciò avvenisse per volontà sua o per azione della corda, e quanto più questa tirava, tanto meno quella la combatteva, così che il processo venne a maturazione quando ogni dubbio o reticenza fisica erano stati banditi. Soltanto allora i sensi vennero coinvolti: al naso di Mamath arrivò l'odore del sangue, alle orecchie il suono prodotto dal vorticare del flusso nelle vene dell'animale fino al suo cuore. Esercitando dunque una presa su quei sensi e su quella corda, Mamath espresse la volontà che il maiale si girasse a guardarla e così avvenne. Nel momento in cui incontrò i suoi occhi, seppe di averlo in completo potere e gli ordinò ancora una volta di confidarle il segreto dell'acqua; ma l'ignoranza del maiale era genuina, non conosceva il sotterfugio o il segreto perché la natura semplice, che sviluppa i suoi magri bisogni nell'Abbraccio, non ne ha necessità. Mamath dunque addivenì alla risoluzione estrema di aprirlo per scoprire da sola la risposta cui così morbosamente anelava, ma quel desiderio destò una nuova voce, altra da quella del sangue già ascoltata, che istruì Mamath su ciò che quell'atto avrebbe generato come conseguenza: la morte del maiale.
Nello spazio di un battito di palpebre, presa consapevolezza del sacro legame fra azione e reazione, operò un taglio e la corda fu recisa; venne meno la presa sull'animale, che finalmente andò per la sua strada. Mamath allora fece ritorno tra gli alberi, dove essi erano più fitti, e rinvenuto un ramo lungo e sottile, dopo averne acuminato l'estremità tramite una pietra scheggiata, ricavò da esso un'arma. Facendosi quindi guidare dai grugniti che ancora si sentivano tra i tronchi muti, ritrovò il maiale che stava nutrendosi di radici e scagliato il ramo lo uccise sul colpo. Con la pietra squarciò poi l'ampio ventre roseo e un groviglio di interiora si accasciò caldo al suolo, e lì vi immerse le mani alla ricerca dell'organo che sentiva essere la sorgente del miracolo dell'acqua. Quando infine estrasse la vescica e riuscì a guardarla meglio, Mamath vide che non conteneva nulla e il cuore le si colmò di delusione, specie perché non sembrava nemmeno rispondere alle manipolazioni, né tantomeno al potere dei canti dràna.
Ancorché tremante di fastidio, Mamath ideò una soluzione che potesse soddisfare la richiesta di Ulm'andher e quindi la missione che si era data, ma che lasciasse d'altra parte irrisolto quel mistero: tornò alla spiaggia e riempì la vescica immergendola nel mare, infine si girò verso ponente e intraprese la lunga marcia di ritorno verso le Montagne Nere. Camminò per molti giorni e molte notti, riposandosi solo quando le ginocchia la abbandonavano e bevendo dalla vescica quel tanto che era necessario al suo corpo per non soccombere all'odio dell'altissimo X'En. Proprio al cielo alzò i suoi occhi stanchi, desiderando la notte quando la luce era più violenta, e all'arrivo del vespro sospirava nel piacere della sua fresca benedizione, scoprendosi a voler poggiare la testa sul petto del buio, là dove le stelle sembravano più forti e giovani, innamorata del crepuscolo. Una notte, Mamath decise di non volersi riposare né ristorare, ma continuò il suo viaggio con gli occhi rivolti al firmamento, perché in testa aveva una fantasia che leniva l'arsura, riempiva lo stomaco e mondava la carne dalla fatica; dopo aver ragionato sull'architettura del canto dràna e la sua scienza, immaginò se con esso potesse fare di se stessa un monumento alla notte. Allora per dare alito al pensiero si produsse in un canto che subito la sollevò dalla terra, portandola così in alto da vedere ciò che le stelle vedono, da percepire il suo stesso corpo fendere l'aria senza rabbrividire, ma anzi venendo da essa temprata; le braccia si fecero ali e la pelle si coprì di folto piumaggio, lucido per riflettere l'albedo della luna e lo sguardo stellare, mentre il viso si allungava quasi a voler toccare anzitempo l'orizzonte. Mamath prese la tinta della notte e la salutò con un gioioso gracchiare, tenendo la vescica stretta tra i ricurvi artigli.

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