mercoledì 15 luglio 2020

La Semina -XLI-

Seguendo la traccia che il vento aveva trasportato dalla costa, d'improvviso scese su Mamath un sudario d'ombra umida, come se banchi di nubi nere di tempesta avessero coperto il sole. Alzando gli occhi, comprese invece di essere arrivata al cospetto di un albero per lei assai impressionante: oltre a ergersi oltre ogni proporzione, esso sembrava già più vecchio della terra in cui affondava le radici, perché a tacer della corteccia diroccata, era comunque ingombrante la visione del dedalo di rami nodosi che si piegavano nudi a occupare lo spazio destinato al cielo, pieni di vergogna non solo per la perdita delle foglie loro spose, ma in special modo per averle dimenticate. Vittima dell'impressione che un tale spettacolo esercitava sul suo giovane sangue, Mamath perse la presa sul tempo e prima che potesse recuperarla era già sceso il tramonto, e con esso il calore del giorno. Allora andò a ripararsi contro il grande tronco e attese che l'ultimo velo di luce scivolasse oltre l'orizzonte per vedere le stelle.
Nel momento in cui il firmamento ripagò la sua attesa, e non un attimo prima, dal terreno tutto attorno si levarono tremori e suoni confusi, poi uno dopo l'altro nacquero piccoli buchi dal suolo collassato, e d'improvviso esplose un rumore stridente, come di battiti d'ali e grida rapaci unite in furioso amplesso, a cui Mamath reagì coprendosi le orecchie. Quando tutto cessò, lei andò a esaminare le crepe nella terra; scoprì che esse si erano sviluppate intorno all'albero senza mai spingersi al di là dell'estensione dei rami. Guardò dunque verso i rami e cantò il proprio nome, ricevendo in cambio una pioggia di fitti sussurri in cui le presenze lì appollaiate rivelavano la loro presenza. Sebbene non li vedesse, Mamath era felice di poter comunicare con loro e chiese perché fossero usciti solo col buio. Ne apprese che il loro signore Drà, all'alba della vita sulla terra, in cambio dei doni del suo regno aveva loro proibito di conoscere il gemello Ik Ki; nonostante avessero accettato, avevano però nutrito in segreto il desiderio di scoprire la luce e per questo si erano limitati a vivere la notte fissando la luna, che si raccontavano essere il nido ancestrale in cui erano nati. Dentro Mamath sbocciò un moto di compassione, ma insieme a esso un sentimento negativo al suo gemello, quasi il racconto appena ascoltato avesse ispirato la natura doppia di quella singolare fioritura, e chiese alle presenze perché fossero così sicure che la luna fosse il loro nido. Al loro silenzio, raccontò che ciò che illuminava la notte altro non era che il corpo di Gargalos, trasformato in scudo da Shintara, figlia dell'Abbraccio, durante la guerra contro i discendenti di Ik Ki. Dai rami su cui erano assisi, con occhi d'ombra la fissarono interdetti e dopo un rintocco di cupo silenzio le domandarono, bisbigliando uno alla volta, se avesse una risposta alle loro speranze. Mamath disse di non sapere da dove venissero, ma interrogandosi ad alta voce sul perché Drà avesse loro proibito di conoscere il gemello Ik Ki, si chiese se non fosse proprio la luce il nido che stavano cercando; sentendo la confusione serpeggiare tra i rami del grande albero, cantò che durante il giorno il cielo ospitava un nido più grande e più luminoso della luna e che forse era quello che stavano cercavano. Con calcolo e raffinata ricerca di ritmo lo descrisse caldo come un grembo, e così convinse le buie presenze ad attendere l'alba insieme a lei.
Alle prime luci, non più tardi dell'attimo in cui il sole si scrolla di dosso la rosea coperta dell'aurora, sui rami serpeggiò il brivido dell'attesa che poi incalzò in un crescendo di tensione e rumore, cui Mamath rise di gusto. Al venir toccati dal primo raggio di sole, gli esseri seppero che quello non era ciò che avevano anelato, ma non importava più: la maledizione di Drà fece il suo corso e diede loro i corpi e il colore da cui la tenebra li aveva spogliati, trasformandoli nei petali rosa di un albero finalmente in fiore, rigenerato alla vita dalla loro morte, che li aveva colti nella felicità della pura contemplazione della luce.
Accarezzata la corteccia di nuovo forte e viva, Mamath diede un ultimo sguardo in alto, alla gloria della fioritura, e poi tornò a seguire l'odore del mare.

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