mercoledì 5 agosto 2020

La Semina -XLIV-

Più in alto della vetta da cui Indh aveva sfidato i cieli, più veloce dei raggi con cui X'En cercava invano di ghermirla, Mamath sorvolò il mondo da un capo all'altro; dalle fitte foreste dove il suo solco era stato inciso, fino ai grandi laghi ghiacciati dell'estremo settentrione, i suoi occhi ricostruirono il volto di Ama Nundra Mun e ne impressero nel sangue il ricordo. Al termine di quel suo esercizio di pura gioia, non ci fu vento da cui non fosse stata cullata, animale la cui forma le fosse estranea, carcassa su cui non avesse affondato il becco, e così tornò alle Montagne Nere e all'aspetto che Indh aveva voluto per lei. Nel passare accanto a un basso rovo, però, sentì che questo emetteva un suono che non aveva mai sentito e si fermò a osservarlo. Mentre la mano già si infilava tra le foglie acuminate per scoprire l'anima di quel fenomeno, questo saltò fuori sua sponte palesandosi alla vista di Mamath: era un animale che non aveva mai visto, nero come la forma che aveva eretto a monumento per la tenebra, e le pupille aveva filiformi o rotonde, a seconda che fossero colpite dalla luce o dall'ombra; le orecchie appuntite conferivano allo sguardo, già traboccante di intelligenza, ulteriore sagacia, e nonostante le piccole dimensioni e il pelo curato lo volessero inadatto alla natura selvaggia, Mamath al solo guardarlo percepì qualcosa di più affilato rispetto a denti e artigli, tenuti nascosti con tranquillità sorniona. Allora lo chiamò Ulm'rahktan, siccome era venuto "dal nulla", e gli insegnò la lingua dei dràna perché era convinta che ne avrebbe fatto buon uso; era quasi l'alba quando iniziarono e prima che il sole sorgesse per la nona volta la trasmissione fu compiuta. In principio, la curiosità di Mamath volle saziarsi circa l'origine del suo interlocutore e solo quando egli ebbe sentita la domanda le rispose: raccontò di essere stato il vuoto attorno a cui il cespuglio di bacche si era formato, la matrice del solco che l'aveva condotta alle Montagne Nere, gli sguardi muti annidati negli oscuri intestizi stellari; quando lei aveva omaggiato la notte prendendo le ali, la notte aveva ricambiato facendosi carne.
Non essendo più sicura di essere ancora la maestra, Mamath mantenne comunque il ruolo di chi pone le domande, perché Ulm'rahktan sembrava ricevere dal semplice fissarla le risposte che cercava. Intrattennero da lì una lunga conversazione circa tutti gli aspetti della Materia e più lo scorrere del discorso si imponeva sull'alternarsi del giorno e la notte, fiaccando finanche la presa del caldo e del freddo sui loro sensi, più ampie diventavano le reciproche prospettive e, al contempo, più profonde le differenze; per esempio, Ulm'rahktan credeva che giorno e notte fossero costrutti originati dalla prigionia di X'En, quindi subordinati alla natura dell'Abbraccio, mentre per Mamath, così come Ama Nundra Mun era stata plasmata dalla Materia per poter fungere da equilibrio cosmico alla guerra dei Gemelli, allo stesso modo il giorno e la notte si erano integrati all'Abbraccio elargendo varietà alle sue creature. Nonostante sempre più spesso la loro filosofia sfociasse in collisione, non v'era astio nel loro animarsi, ma anzi l'amalgama dei loro canti concepì un Coro tramite il quale tutto ciò che si erano detti si connaturò all'Abbraccio, scomponendosi nelle quattro anime che furono matrici delle stagioni.
Le tenzone verbale si esaurì in capo a trecentosessantacinque giorni, quando ciò che in principio era nato come poco più di un ozioso diletto maturò in diversi ordini di grandezza, e le stagioni si imposero come il naturale respiro della terra stessa; tra tutti i virgulti che avevano fatto sbocciare e appassire, uno lo mantennero cristallizzato nella sua adamantina bellezza: l'affetto tra i loro genitori. Nel godere del tepore della neonata famiglia, Mamath ricordò però la sua missione, e con essa le parole di Ulm'andher circa il fatto che di figli ne avrebbe avuti non quattro, ma otto. Allora si congedò dall'amato Ulm'rahktan con la promessa che avrebbero conversato di nuovo e cantando tornò a Moa. Lì stava ad attenderla il dràna, assiso sull'albero dai fiori rosa che con gelido inganno Mamath aveva contribuito a creare. Sollevata verso di lui la vescica ricolma di acqua di mare, lo attirò dunque al suo livello e quando fu a portata gliela svuotò addosso: l'acqua cadde a terra senza che una singola stilla si azzardasse a entrare in contatto col corpo del dràna. Anticipando la domanda che stava per arrivare, Ulm'andher spiegò a Mamath che ciò che lei vedeva come un inganno, per lui altro non era che partecipazione al Coro di Zatamana. Parlando la lingua nella cui padronanza entrambi raggiungevano lo stesso talento, le disse infatti di averla soltanto accompagnata alla maturazione del suo seme. Ora che in virtù delle sue azioni quel seme era pronto, le cantò che nel momento in cui fosse uscita da Moa, avrebbe da sola operato la semina dando alla luce gli ultimi quattro figli. Prima di congedarsi, Mamath ebbe un pensiero per gli Us'fulum e chiese a Ulm'andher cosa sarebbe stato di loro. Il dràna rivelò che dal suo trono Zatamana impone a ogni cosa un ciclo di semina, fioritura e mietitura, e questa risposta le bastò.
Tornata nel mondo, l'aria si era fatta greve e le nubi cariche di sangue, il vento aveva smesso di respirare e l'erba di crescere. Al centro della spianata antistante le Montagne Nere, cui Mamath dava le spalle, c'erano due figure che conosceva molto bene: la prima era quella del suo creatore, ridotto all'occhio blu dalla pupilla d'argento, menomato nel corpo ma non nel potere; l'altra se ne stava seduta sul cadavere di un cervo, con la testa bassa e il volto coperto da un lungo velo vermiglio, che "scorreva" come omaggio al nome del Quinto Codice.

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