mercoledì 1 luglio 2020

La Semina -XXXIX-

Mentre il solco tracciava la via attraverso il continente, Mamath lo riempiva col sangue della sua piaga inesausta e tale fu l'aspetto di quest'opera da sembrare a sua volta una ferita nella terra. Questa via rossa percorse il volto di Ama Nundra Mun senza arrecarle alcun dolore e si compì ai piedi delle Montagne Nere, dove ponente e settentrione strinsero sodalizio con valli aride macchiate da alberi solitari, e sbuffi di vento secco che nasceva gelido sulle vette per poi spegnersi freddo tra i tristi ciuffi verdi della steppa. Mamath entrò nell'ombra della montagna più alta, presentandosi come ai cancelli di un cupo palazzo e fu in quel momento che dalla vetta scese morbido un rivolo d'acqua scura; esso brillava non della luce del sole, che era alto sulla valle, ma di quella di una notte tersa e silenziosa, di cui peraltro a Mamath sembrò riflettere anche qualche stella. Sinuoso come una serpe, il rivolo scese lungo il fianco della montagna, tagliando a un certo punto verso il ventre per sfruttare un'ansa più comoda, e infine calarsi dalle pendici dove Mamath lo vide mischiarsi al solco che l'aveva fin lì condotta e al sangue in esso contenuto. Nel loro incontro, che si protrasse lungo tutto il solco, le due essenze divennero una ed essa diede un corpo limpido all'anima del primo fiume del mondo. La giovane acqua attirò la sete di Mamath, che cadde in ginocchio sulla riva per dissetarsene. Successe allora che la piaga sul suo petto prese a rimarginarsi fino a guarire del tutto, senza tuttavia mondare il corpo dalla presenza del dolore, perché esso era nato fuori dal dominio della carne.
Nel momento in cui Mamath decise che il suo bisogno era stato placato, si accorse che la piaga che aveva abbandonato il corpo non era sparita, ma si era solo spostata sulla pancia della montagna, aprendosi nella roccia e facendo da essa scaturire un alito di voce che cantò il suo nome. Attirata da esso e al contempo obbedendo alla necessità di comprendere, Mamath ne seguì la sorgente fino a entrare nella cavità, dove un sentiero senza diramazioni era già stato tracciato affinché lei lo percorresse. Camminò tra due pareti di roccia la cui sommità si perdeva in una cupola di tenebre, perché ogni cosa attingeva luce e colore dalla pelle nera della montagna, e seguì la via senza mai fermarsi. Quando alla pietra si sostituì una materia della stessa durezza, ma liscia al tatto e traslucida alla vista, come acqua cristallizzata eternamente in un preciso attimo del suo scorrere, Mamath pensò che il confine con le cose naturali si stesse affievolendo; quando infine quel materiale prese la forma di alti tronchi d'albero, che sorreggevano la notte con rami d'ossa e folto fogliame di lamentose zampe di ragno, ne ebbe la conferma. Il percorso la condusse fuori dalla delirante foresta di immondi colonnati, ma subito Mamath ne provò nostalgia: su entrambi i lati del sentiero si ergeva adesso il vuoto assoluto, dove fili di luce venivano drenati dalle stelle esanimi, fornendo un pasto alla smisurata bocca che non restituiva al cielo altro che rigurgiti di silenzio annichilente. Per mettere a tacere il terrore, Mamath scelse di concentrarsi sulla fatica del corpo, perché tanto irta era diventata la strada da costringerla a muoversi usando anche le mani; ma la tenue presenza che si adagiava all'estremità del percorso, facendone naturale parte come l'unghia alla fine di un dito, motivò Mamath a raggiungerla prima di essere a sua volta ghermita dalla follia e così fu. Una volta alla fine del sentiero, si ritrovò sull'isola in cui Indh l'aveva plasmata e fu presa dallo sgomento, poi finalmente dalla paura. Il timore che tutte le sue esperienze fino a quel momento fossero state vane, se non addirittura una mera illusione, la lasciò immobile e silente. Guardando però nel punto in cui si aspettava di incontrare la pupilla d'argento del suo creatore, vide qualcun altro e il gelo che la imprigionava si sciolse di colpo: una figura diversa da Indh la stava fissando. Dalla sua bocca uscì un canto e questo canto le diede il benvenuto a Moa.
Cantò che lei sarebbe diventata la signora dell'isola, del sentiero, della montagna e della notte. Le promise il dominio sui colori e sulla morte, sulle illusioni, sul dolore e sulla gioia. La rassicurò che avrebbe vissuto a lungo e che da lei sarebbero nati quattro figli. Mamath capì ogni cosa, ma l'unica sua risposta fu il toccarsi la gola. Allora il suo interlocutore capì e riempì un calice con l'acqua che circondava l'isola, infine glielo porse. Bastò un sorso e Mamath acquisì la voce e la padronanza del linguaggio dei dràna. Dalle sue labbra uscì il primo canto dell'uomo: "perché?"
Chi le stava davanti cantò di chiamarsi Ulm'andher e che quello da cui aveva bevuto era il Raama Toi.

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