mercoledì 30 settembre 2020

La Fioritura -LII-

 Oltre i colonnati dove neanche il gelo penetrava, sul trono di pietra era assisa Vlada, cui l'eterno eco del più infimo rumore rimarcava la sospirata solitudine. Corta però fu la quiete, ché il frutto dei suoi inganni già le era cresciuto in grembo e ruggendo come bestia affamata si apprestava alla vita. Dentro la Pallida erano due figli, perché due i semi da cui discendevano, blanditi e poi separati dal potere della madre. Nel giorno della natività, straziando i lombi che li avevano nutriti si fecero strada all'esterno, rovesciandosi sul freddo pavimento della sala buia, dove i loro pianti si confusero. Il maschio aveva incarnato niveo e occhi color del sangue, e dello stesso colore i radi capelli; diversa era invece la femmina, scura come il padre, ma dotata di una cuffia di albedo lunare, e il contrasto tra i due toni era tanto marcato da risultare doloroso alla vista. Prendendoli tra le braccia, Vlada respirò a fondo il profumo della loro pelle e della loro carne, maturando il destino al quale li avrebbe condannati. Chiamò il figlio Iskravul e la figlia Zernavul, poi scese dalla montagna e seguendo il sentiero d'acqua, che dal ruscello conduceva al cuore del bosco, li abbandonò alla pozza circolare che era opera del maschio di Tenqar. Senza voltarsi riprese la via del suo palazzo e del suo trono, e lì restando per molto tempo immobile, serrò la presa della volontà attorno al suo sangue e lo costrinse a operare ciò che l'ambizione aveva elaborato. Tali erano le risorse versate nello sforzo che dalla testa iniziarono a crescere vermigli capelli, la cui fioritura diede violento calore alla spenta sala del trono; attecchirono sulla pietra e penetrarono nella roccia, poi continuarono a crescere. Quando l'atto arrivò a maturazione, la Pallida partorì l'immonda prima partenogenesi, bassa incarnazione della guerra che con la sua nascita veniva dichiarata ai Cinque Codici. La creatura non aveva un genere, ma una confusa pluralità di essi, sparsa come malerba su un corpo spezzato e sanguinante; da uno degli orifizi aperti come ferite strisciavano lamenti di fastidio e da una delle sette pupille, gibbosa anziché circolare, effluvi d'odio. Sua madre la guardò con l'intensità della serpe nei confronti del roditore, la prese in braccio come tra sinuose spire e dopo un momento di studio, aperta la bocca addentò la carne immonda e insensibile al dolore provocato la divorò viva. Riavute le risorse che le appartenevano, Vlada le convogliò di nuovo nel medesimo sforzo, prendendosi però più tempo per riuscire dove prima aveva fallito. Allora il suo grembo diede alla luce una bambina che come lei era pallida e simmetrica nelle forme, ma nei lineamenti la innata grazia veniva adombrata dalla presenza di un astio sottile e perciò pericoloso. Vlada la chiamò Nejnavezda, "l'odiosa", e la lasciò lì dove si trovava a patire fame e abbandono, perché voleva darle una sorella. Concentrò dunque il suo potere nell'idea del contatto, che più di tutto il resto le suscitava viva repulsione, e per questo la secondogenita nacque con le mani già protese alla carne più vicina, senza riuscire a distinguere la fame dall'affetto fisico. Vlada le riservò la stessa fine della prima partenogenesi, poi, senza attendere che il sangue sulla bocca si seccasse, dalla carne divorata venne ricomposto il corpo e dal corpo l'impronta sanguigna. Partorita la seconda figlia, per nome e titolo le diede un ordine: "Smotra" le disse, "guarda!", e seguendo la direzione in cui l'indice della madre puntava, la piccola vide Nejnavezda. Allora Smotra si prese cura della sorella come le era stato intimato e quella fu la sua sacra consegna, il Codice prima dei Codici.

Consolata dai risultati ottenuti, Vlada venne però turbata dal sospetto di aver imboccato un sentiero senza ritorno e che la sfrenata ambizione, anziché il giudizio, fosse ciò che la stava trascinando in avanti, mentre aveva fino a quel momento creduto di condurla. Scissa dal dilemma, perse la presa sul concepimento della terzogenita mentre esso avveniva e quando la mise al mondo, subito se ne accorse: sotto le macchie di sangue la piccola mostrava fattezze più dure, asimmetria tra arti e una coesistenza fra sessi maschile e femminile. Afferratala dal piccolo collo, Vlada la avvicinò ai denti ancora lucidi di sangue e fece per morderla, ma quando la creatura la guardò, non riuscì a far altro che esitare. In una vampa d'ira la precipitò a terra, dov'erano le altre sorelle e la chiamò Vlatzkin, "io esito".

Per recuperare l'equilibrio perduto, Vlada diede i natali alla quartogenita: la bambina era viva ma non si muoveva, né mostrava segni dei forti sentimenti di chi all'esistenza è nuovo. Si limitava a osservare la madre e le sorelle tenendosi equidistante da tutte loro, e in special modo da Vlatzkin. Per questa ragione fu insignita del nome Poryazda, che nella lingua del sangue è "non muoverti".

Così il ciclo ebbe nuovo respiro: ogni esemplare imperfetto era divorato per incubarne uno che Vlada avrebbe accettato, e il processo produsse Rystiva, unica a poter essere vista dalle sue sorelle ma non dalla madre, e la gemella Mmstiva, di cui al contrario soltanto Vlada conosceva l'aspetto. La settima fu Monocernova, più bella di tutte le altre figlie e finanche della madre, che sembrava assorbire il suo splendore da tutto ciò che la circondava, rendendola attraente tra tutte le razze di parassiti.

Venne poi il momento dell'ottavo parto, una bambina storta e dalle pupille gibbose che conobbe la luce rossa della sala masticando con gioia brandelli di utero materno. Lei fu Sarok, "la fine", figlia che come Vlatzkin condusse la madre a una catarsi; Vlada accettò di non poter più riprodursi e le sue carni si arresero sullo schienale di pietra, donandole il sonno.


mercoledì 23 settembre 2020

La Fioritura -LI-

 Siccome il maschio di Xish, quello di Tenqar tornò dalla montagna in trionfo. Con sé recava un cesto ricolmo di metalli grezzi, incrostati di pietra, e lo adagiò ai piedi di Tenqar. A quella vista, il male che era del suo uomo ammorbò anche lei, e da allora nel suo cuore altro non ci fu che l'appetito per il possesso. Chiese allora che quel tesoro le venisse donato e il maschio, d'improvviso scuro in volto e a capo chino, si forzò ad accettare. Il lutto però si estinse nel tempo dell'ingegno, che maturò un'idea. Successe allora che nel momento in cui Tenqar ricordò per quale motivo avesse tanto atteso il ritorno del suo maschio, lui le si negasse, e il rifiuto veniva reiterato con più forza di quanta ne venisse esercitata per tentarlo. Avvilita e umiliata, Tenqar ricorse alla ricchezza cui non avrebbe mai voluto attingere: dalla cesta che lui le aveva donato, prese una pepita luccicante e gliela porse. Il maschio sorrise, perché ciò che aveva previsto si era realizzato, e la sua virilità rispose di conseguenza. La coppia si avviluppò nella lussuria e nel piacere, della carne e del metallo in egual misura, e tanto grande crebbe quel seme da sfociare nella più ricca delle fioriture: sette furono infatti i primogeniti, ciascuno di essi maschio.

La famiglia aveva bisogno di un luogo che la riparasse e proteggesse, così Tenqar chiese al suo maschio di edificare qualcosa di adatto, e alla domanda sul perché dovesse farlo da solo, lei rispose che era stanca e doveva badare ai piccoli. Il compagno allora chiese in cambio un'altra pepita e lei acconsentì, ma stavolta più volentieri, ché aveva iniziato a capire quanto fosse più preziosa la ricchezza nel momento in cui veniva spesa, anziché serbata. Il maschio si recò nel bosco per la legna e ai piedi della montagna per la pietra; con questi materiali costruì la casa per la sua famiglia, solida e robusta, e perfino capace a sufficienza da accogliere un'altra generazione, ma assai lontana dall'imponenza del palazzo di Vlada, dalle rifiniture dei suoi interminabili colonnati e dalla simmetria cui aveva piegato la nuda roccia all'interno della montagna. 

Quando l'opera fu finita e Tenqar soddisfatta, il suo stanco compagno le chiese di andare a raccogliere del cibo e lo fece porgendole una delle proprie pepite. Questo modo di condurre la propria esistenza andò avanti ancora per molto altro tempo, e quale che fosse la necessità veniva risolta solamente con lo scambio di metallo, e mentre le generazioni si allargarono alla seconda e poi alla terza, il bisogno di una nuova casa venne fatto gravare sui membri della prima, ormai grandi. Essi, che dai genitori avevano ereditato non solo il tono argilloso della pelle, ma anche quel particolare appetito, richiesero per il lavoro sette pepite, una per ciascuna di loro. Dato però il numero, Tenqar e il suo maschio discussero su chi doveva dare più dell'altro, senza venirne a capo. Si fece avanti in quel momento uno dei sette, che prendendo i suoi genitori da parte e assicurandosi che nessun altro li ascoltasse, propose loro questo patto: avrebbe costruito la casa con i suoi fratelli e diversamente da loro senza profitto, a patto che un giorno, alle stesse condizioni, sua madre e suo padre restituissero il favore. Questi accettarono senza pensarci, presi com'erano dalla gioia di non doversi separare dall'amato metallo. Così fu edificata la seconda casa, dimora della terza generazione.

Poi ne arrivarono altre e si continuò a costruire case fino all'ottava, quando divenne oramai chiaro che ai figli più giovani sarebbe stato precluso l'accesso alla ricchezza, dal momento che le pepite erano limitate ed esse giravano tra i primogeniti, i secondogeniti e i genitori, assuefatti alla prosecuzione di quel circolo. Dalla terza all'ottava generazione si assieparono dunque attorno alla prima casa, chiedendo con toni minacciosi che il metallo potessero averlo anche loro. Mentre dentro la casa serpeggiava un terrore che Tenqar riusciva a malapena a contenere, il maschio fu sul punto di uscire coi primi e i secodogeniti per dare battaglia, ma in quel momento una mano si posò pacifica sulla loro spalla. Era il figlio con cui avevano stretto accordo, e la sua espressione anticipava meglio delle parole l'intenzione di riscuotere il vecchio debito. "Senza che foste privati della vostra ricchezza, ho costruito la casa di chi ora ci minaccia. Dovevate prevedere che chi è giovane abbia più fame: non siete stati saggi. Io lo sono, perciò per ripagare il mio lavoro e la mia pazienza, ora mi direte da dove viene il metallo."

Tenqar, apprezzandone l'ingegno, diede a lui ciò che gli altri figli non avevano né avrebbero mai avuto: gli diede il nome Nilqa, perché "primo di sette" e così benedisse la risoluzione della sua parte di debito. Il padre invece gli raccontò della montagna, dell'arco che da due alberi aveva ricavato, della pozza d'acqua in cui sole e luna si specchiavano, e finanche della scalinata incisa nella roccia. Di ogni cosa lo mise a parte, tranne che di Vlada. Saputo quanto doveva, Nilqa uscì ad affrontare i fratelli e le sorelle furiosi e promise che entro sette giorni sarebbe tornato con più metallo di quanto ne avessero mai visto, e sarebbe stato tutto loro. In un giubileo di approvazione, Nilqa riunì le sue cose e partì alla volta della montagna.

mercoledì 16 settembre 2020

La Fioritura -L-

 Nel giorno in cui fece ritorno, il maschio di Xish era ormai libero dalla tirannia del suo ruolo, perché su di esso aveva conquistato il controllo, e dalle alte spalle un manto di pelliccia si accasciava a terra, trascinando sulla distanza percorsa il sangue ancora fresco. Il prezioso trofeo da più parti era composto: a mo' di collare era allacciato il candore di una volpe bianca, che aveva le piccole fauci schiuse a mostrare i denti selvaggi, il naso ancora umido e le orbite vuote; sulle spalle erano adagiati due conigli acefali, con le zampe a penzolare esanimi verso il petto e le scapole; il resto del manto, che era la gran parte, aveva il pelo ispido dei lupi affrontati sulla cima della montagna, e il nero e il grigio si affollavano uno sull'altro senza requie, quasi le bestie avessero iniziato a lottare per contendersi il nuovo territorio. Nel vedere il suo maschio sì ricco e forte, Xish se ne innamorò e sfiorando il suo addome gli disse che lo voleva. Allora il maschio di Xish rispose che c'era un posto dove voleva condurla, là dove il loro potere sarebbe stato celebrato e nutrito dai cicli naturali, e solo in quel luogo l'avrebbe presa. Così partirono per la meta sconosciuta, da qualche parte dietro l'orizzonte a oriente, lasciando per sempre le tanto sprezzate montagne, che erano scuro confine del mondo a ponente, ma all'ombra delle quali si erano fatti signori.

Attraversarono la terra vedendola presto mutare nei venti e nei colori, ma mai si concessero un saggio di quel cambiamento, che pur esercitava un irresistibile richiamo, perché la meta aveva priorità sul viaggio. Una notte che si erano fermati per godere dei frutti della caccia al chiaro di luna, Xish iniziò a soffrire lo spazio aperto della pianura in cui si trovavano e desiderando che attorno a lei spuntasse una foresta di alberi per farla sentire a casa, sui superbi lineamenti calò l'ombra della tristezza. Accortosi del malumore della compagna, il maschio la coprì col manto di pelliccia, che era incarnazione del suo potere, e benché il problema non fosse il freddo, o l'invidia, questo bastò a ripristinare la bellezza di Xish, scacciandone la tenebra. Il giorno dopo giunsero sulla riva di un fiume, vasto e turbolento ostacolo alla terra che desideravano raggiungere, e il dubbio su come attraversarlo li impietrì. Dopo numerosi tentativi, in cui la corrente quasi li trascinò lontano l'uno dall'altra, si arresero alla pochezza degli strumenti con cui la natura li aveva armati per simili imprese, e nel riprendere il cammino lungo la riva per scoprire se ci fosse un guado, videro che una piccola creatura nera li stava fissando. Il gatto era seduto sulle zampe posteriori e i suoi occhi trasudavano intelligenza. Alla domanda di Xish su chi fosse, egli rispose cantando in una lingua straniera ma comprensibile: "Perché non chiedi aiuto al tuo sangue?"

Al che, alzata la testa e disteso il collo per ergersi ancora più al di sopra della minuta creatura, Xish rispose sprezzante "Proprio perché è il mio sangue, lui è potente in molte vie, ma come me non può attraversare questo fiume."

Il gatto tacque un momento, e quel silenzio pesò come pietra su Xish e il suo maschio, poi cantò che il sangue versato nell'acqua si era già fatto guado. Come goccia di rugiada che dalla foglia precipita nella pozza e rompe la quiete della stagnazione, allo stesso modo le parole appena udite invasero la mente di Xish, mutandone la confusione in consapevolezza. Si avvicinò di nuovo alla riva e con voce ferma evocò la parola cui l'epifania l'aveva condotta: Awyn.

Dalle pieghe fluide dell'acqua emerse lo sguardo vivace della sorella più minuta, e al suo apparire la corrente si placò, addormentandosi. Tale era la felicità di rivedere Xish e di conoscere il suo maschio, che Awyn la espresse guidando i pesci del fiume in una danza rituale, per ringraziare la sorella di averle chiesto aiuto e per propiziare la prosecuzione del viaggio. Poi sollevò le piccole mani da sotto l'acqua e quando Xish e il suo maschio le afferrarono, la sua gioia li contagiò. Nell'attimo in cui quel sentimento esaurì la sua carica, lasciando al suo posto un tiepido tepore di fiducia, i due pellegrini si accorsero di essere già dall'altra parte del fiume e che la terra attorno a loro era cambiata, diventando grassa e fertile, affollata di piante scure dalle foglie ampie e dal profumo assai intenso. Il gatto non c'era più, soltanto Awyn era rimasta con loro e la sua risata irradiò soddisfazione. Disse che era tempo anche per lei di riprendere il cammino, ché vi erano cascate da scavare, fiumi da tracciare e vecchi precipizi polverosi, retaggi della guerra di Shintara contro di Xenwa, da riempire per farne limpidi laghi. Questo disse, ma Xish e il suo maschio non la compresero, limitandosi a ritrarre le mani e a ringraziarla in silenzio mentre il suo sorriso spariva dietro le correnti di nuovo furiose del fiume. Appena si volsero per abbracciare con gli occhi la nuova terra, la meta del loro viaggio si mostrò nella sua imponenza: l'albero dai fiori rosa svettava cupo e torto da dietro l'orizzonte, e la folla di rami che spingeva in cielo sembrava da lontano una nube carica di pioggia e lampi. Xish e il suo maschio lo raggiunsero dopo una lunga percorrenza, stupendendosi di quanto fosse alto man mano che lo avvicinavano, e una volta calpestata la terra che a malapena riusciva a coprire le radici ingombranti, Xish si tolse di dosso il manto e lo porse al suo lui, spiegandogli che ciò che doveva essere fatto necessitava di un Re. Allora il maschio prese il manto e coprì di nuovo le spalle della compagna, rispondendole che ciò che doveva essere fatto non voleva farlo con la pelliccia, ma con lei. A quelle parole l'enorme tronco dell'albero schiuse un'entrata e i due amanti subito la varcarono, abbracciati in un'unione intensa che continuò anche dopo che il tronco si richiuse, e per molto altro tempo ancora. Ciò avvenne in autunno.

Al termine dell'inverno, i fiori rosa iniziarono a sbocciare timidi dai rami scuri, e poi eruppero gloriosi a primavera. Accanto a essi, nuove escrescenze si affacciarono alla vita e all'alba dell'estate erano già cresciuti diventando frutti maturi, grandi a sufficienza da non far sfigurare l'albero cui erano aggrappati. Quando la stagione calda arrivò al suo apice, i frutti caddero a terra e subito si schiusero, rivelando il prodigio in essi contenuto: i figli di Xish e del suo maschio si alzarono da terra, alti e snelli come i loro genitori, scuri come corteccia e tutti dotati, sia i maschi che le femmine, di una cascata di folti capelli neri. Questa fu l'alba del popolo dei Xish.

mercoledì 9 settembre 2020

La Fioritura -XLIX-

 Siccome un fiume che rompe gli argini feconda la terra tutta attorno, il maschio di Tenqar lasciò traccia duratura del suo vagare: al principio del percorso piegò due alberi uno verso l'altro, legandoli con foglie sottili ed elastiche in nodi dolci, affinché l'arco formato dalla loro unione fosse simbolica porta alla montagna, nonché monumento al viaggio appena intrapreso; poi, finito che aveva di legare una pietra all'estremità di un rozzo manico, scavò una piccola via d'acqua dal ruscello ai piedi della montagna fino alla macchia boscosa poco più a valle, facendola culminare in una pozza tanto rotonda e impeccabile che agli animali assetati sarebbe parso di abbeverarsi al sole di giorno e alla luna di notte. Infine, trovando defilata dal sentiero una parete di roccia adatta allo scopo, la scolpì in una spirale di gradini su cui, lento ma determinato, si fece strada verso l'alto; nel dubbio però di essere seguito da Tenqar, spesso durante la sua opera si costrinse a tornare in basso, così da sincerarsi che da quella prospettiva la scalinata non fosse visibile che da un occhio scrupoloso, per qualche motivo attratto da un muro di roccia spoglio e solitario. Quando fu sicuro che niente e nessuno fosse sulle sue tracce riprese l'opera con piglio saldo, gioioso nel lavoro, salendo il costone in direzione della vetta, oramai visibile dietro il velo traslucido che le nubi opponevano assai pigramente. Incontrò, a un certo punto della scultura, una pietra sporgente che ostruiva il percorso della scala, e notò che su di essa era poggiato un nido e nel nido quattro uova; il maschio di Tenqar si percepì d'improvviso affamato e giacché aveva ancora molto lavoro da fare prima che l'opera arrivasse a completezza, aperte le uova ne ingoiò il contenuto. Soppresso quell'istinto, con un ultimo travaso di energia completò la scala, calpestando finalmente l'agognata cima dove tutto era etereo, dall'aria al colore della neve, dal cielo diviso fra giorno e notte al profilo dell'orizzonte sfumato dall'altezza, perfino la realtà si impose sui sensi e subito le forze lo abbandonarono, sicché un pietoso sonno volò su di lui e gli chiuse gli occhi.

Al risveglio, nessuna delle sensazioni che lo avevano stordito era andata via, ma anzi se ne era aggiunta un'altra: vedendo davanti a sé, nella neve, un'altra figura rannicchiata nel sonno, al maschio di Tenqar parve di essere defunto e di stare osservando il corpo da cui la morte lo aveva separato. Poi però la vista si acuì e riconobbe che per quanto il trapasso avesse potuto spegnere il suo incarnato d'argilla, non sarebbe mai stato tanto pallido da risultare indistinguibile dalla neve. Oltre a ciò, quel corpo possedeva forme dove lui ne era sprovvisto e al contrario mancava là dove il suo opposto mostrava di più. Il maschio di Tenqar comprese dunque di stare osservando qualcun altro e vi si avvicinò cauto, con sospetto, perché quello che aveva davanti gli ricordava la forma della sua compagna. Scoprì però che la femmina riversa nella neve non era Tenqar, né Xish, ma una che non aveva mai visto e che esanime tremava, erosa dal freddo. Ella disse qualcosa in una lingua sconosciuta e il maschio di Tenqar capì ciò che doveva esser fatto. In fretta sfruttò la roccia grezza che la cima offriva in abbondanza per costruire attorno alla femmina quattro mura in solida pietra, unite da un tetto a cupola. Nel momento in cui lei si riprese, dalla sua bocca strisciarono altre parole in quel suo linguaggio duro, spiacevole alle orecchie del maschio di Tenqar, che però guardandola negli occhi percepì una fragilità cui solo lui poteva offrire protezione. Allora scese a valle lungo la gradinata e preso il legname necessario da un albero che aveva selezionato e poi abbattuto, costruì un talamo dove la femmina potesse riposare più comodamente. Dopo un lungo sonno ristoratore, la femmina si svegliò sorridente e per sdebitarsi condusse il maschio di Tenqar attraverso la fessura alta e stretta che dava accesso alla montagna, dove la tenebra era costellata di luci come la notte degli astri. Afferrata la mano del maschio, la condusse su uno di quei bagliori, facendogli scoprire l'esistenza del metallo e ottenebrandolo per sempre con la fame di tutto ciò che luccica. Per saziare l'immondo appetito, lui provò a separare la luce dalla roccia con ciò che aveva, ma dopo numerosi vani tentativi trattenne nelle mani solo polvere e avidità. Quando tornarono al riparo delle mura, subito si adoperò a trasformare lo spazio che aveva eretto per la pallida nella sua propria fucina, dove potesse ricavare con l'ingegno gli strumenti atti all'estrazione del metallo. Al che lei chinò la testa in segno di sottomissione e lo lasciò lavorare. Così, ogni giorno gli portava carne fresca e ogni notte acqua di fonte, fino al momento in cui l'opera fu completata. Costruiti gli strumenti, il maschio di Tenqar uscì per dirigersi all'antro, ma la bianca mano lo trattenne: con parole suadenti, pronunciate in una lingua che lui ancora non capiva, la femmina lo invitò sul talamo per permetterle di prendersi cura del corpo stanco, e l'altro si lasciò guidare. Deterso il sudore dai muscoli tozzi, gli strofinò addosso le saponose foglie di betulla e cintogli il collo con una ghirlanda di edera e bacche, lo accompagnò nel sonno. Al risveglio, il maschio di Tenqar recuperò la rigenerata fame di metallo e si diresse lì dove giacevano i frutti che la montagna si era ostinata a non condividere con lui; armato però dei nuovi strumenti, senza fatica estrasse ciò che agognava e dopo essersene riempito le braccia uscì festante dall'altro. Trovò il sorriso della pallida, che giunse le mani in ginocchio, omaggiandolo come proprio dio e signore. A quel riconoscimento, il maschio di Tenqar si lasciò cadere il tesoro dalle mani e avvicinatosi alla pallida finalmente la prese.

Lì giacquero per tre notti, senza avvertire sete o appetito, freddo o stanchezza, finché al termine dell'amplesso Vlada non si alzò in piedi toccandosi in grembo. Il maschio di Tenqar apprese che sarebbe diventato padre, ma ciò che il suo stesso sangue gli stava suggerendo andava oltre: per poter accogliere la sua discendenza, avrebbe dovuto costruire un palazzo. E così fu: la cima della montagna fu scolpita tanto bene all'esterno quanto riccamente all'interno, e dalla roccia nera furono ricavate stanze vaste e tetti sorretti da fittissimi colonnati, questi financo facenti funzione di mute guardie lungo il corridoio che conduceva infine al capolavoro del maschio Tenqar, un trono di pietra. Lì prese posto Vlada, che guardando dall'alto l'artefice della sua nuova dimora, disse che era per lui arrivato il tempo di tornare dalla sua vera compagna.

mercoledì 2 settembre 2020

La Fioritura -XLVIII-

 Come voto ai rispettivi celesti, Xish versò il sangue sul suo maschio durante la luna nuova e Tenqar fece altrettanto all'alba, infine attesero. I simulacri inspirarono il primo fiato al tramonto successivo e quando aprirono gli occhi, pur vedendo le compagne già in estasi per loro, non riuscirono a comprendere quel sentimento, né tantomeno a condividerlo. Passò molto tempo prima che le femmine li introducessero all'esistenza e spiegassero che il fine della loro era l'accoppiamento, ma i maschi, nonostante fossero tanto diversi quanto lo è la foglia dalla pietra, arrivarono ambedue al rifiuto del ruolo che gli era stato imposto. Al conseguente insistere delle compagne, presero la decisione di allontanarsi da loro e le avvertirono che se fossero stati seguiti, non sarebbero più tornati. Lasciarono così le femmine al tormento e al rammarico, senza curarsene, e intrapresero i gelidi sentieri lì dove la vita è solo di passaggio, nei corpi bui che col sole alle spalle coprono tutto il mondo d'ombra. Ai piedi delle Montagne Nere si divisero, prendendo ciascuno la direzione più congeniale alla propria natura: il maschio di Xish si inerpicò lungo un passo stretto e ostruito di neve, confidando nella presenza di prede e nella conservazione delle loro impronte; il maschio di Tenqar invece andò per un crinale spazioso e poco scosceso, ricco di rocce e arbusti e alberi da cui ricavare il necessario alla sopravvivenza.

Il maschio di Xish era agile, i suoi piedi leggeri non lasciavano segni, e mosso dalla fame presto trovò una tana perché i suoi occhi sapevano dove guardare. Dopo il primo giorno di esilio, aveva cacciato due conigli e li aveva mangiati crudi. Il secondo giorno il freddo si fece più pungente, la caccia più lenta, e alla fine riuscì a catturare soltanto una volpe. Con le pellicce si coprì la gola e le spalle, e dopo essersi riparato dietro un costone di roccia scura, finalmente riposò. Il terzo giorno inseguì uno stambecco su per la parete del monte, ma l'animale a ogni trappola si faceva più astuto, e all'arrivo del buio e del gelo ululante nemmeno le pietre appuntite del cacciatore, lanciate con implacabile perizia, riuscirono a offendergli il cranio, duro in omaggio alla pelle di sua madre la montagna, come il nero corvo alla notte. Il quarto giorno il maschio di Xish si trascinò affamato dove le tracce lo avevano condotto, all'interno di una caverna dove, se il destino gli avesse negato il pasto, avrebbe però trovato sicuro ristoro dal freddo. Non trovò né l'uno né l'altro, perché la gola della caverna emise minaccia nel momento in cui il piede dell'invasore aveva varcato l'entrata, e quella minaccia si fece carne nell'orso partorito dalla tenebra. Esso era grosso oltre ogni misura, tanto da non riuscire a muoversi se non strisciando, perché l'antro che con la propria mole stava strozzando non era la sua tana; infatti il corpo maciullato dello stambecco gli penzolava dalle fauci, e al vederlo il cuore del maschio di Xish si riempì di gelosia. Ingaggiò dunque con la creatura una lotta feroce, cieco di rabbia, ma lo squilibrio di forza lo portò alla fuga, lasciandosi dietro una scia di sangue e di vergogna. Ripercorse i suoi passi e discese a più mite altezza, ché il vespro incombeva e il vento rinforzava precipitandosi dalla vetta della montagna, una volta appiglio della luce di Rasseth e ora covo di freddo e morte. Al sorgere del quinto giorno, uno strano malessere svegliò il maschio di Xish; non erano le ferite o il ricordo dell'orso a tormentarlo, ma una sensazione nuova e spiacevole, tanto un capovolgimento violento della sua natura quanto un'integrazione della stessa: sapeva di essere osservato. Gli parve persino di vederli, quegli occhi, nel buio oltre la neve. Trasfigurato da cacciatore in preda, scese allora la montagna per ricongiungersi alle amate foreste, ma gli sguardi si moltiplicarono intorno a lui fino a farlo bestia in un recinto. Nel momento in cui la luce di X'En penetrò la foschia, realizzò che gli anelli di quella catena d'oppressione erano lupi grigi e neri, maschi e femmine, giovani e anziani, che lo fissavano placidi, senza mostrare i denti o segni d'appetito, tutti eccetto uno: si confondeva col mortale pallore della neve un lupo bianco che era alla testa degli altri, ma diversamente da loro non fissava l'intruso della montagna, perché i suoi occhi erano chiusi e rivoli di sangue colavano giù dalle palpebre. Nella testa del maschio di Xish si fece strada l'idea di seguirlo, cui cercò invano di resistere; i piedi solcarono in indipendenza il sentiero che la creatura aveva iniziato a tracciare innanzi, che lo portò di nuovo su per il gelido corpo della colossale roccia nera, attraverso il passo in cui lo stambecco era stato inseguito, poi sulla scia di sangue che stisciava fuori dalla grotta dell'orso. Svoltarono dietro una pietra alta e filiforme e da lì intrapresero una via in salita, posata sulle nubi che nascondevano agli occhi la vetta, tanto in alto dalla terra che per il maschio di Xish ogni respiro era difficile quanto il litigarsi la stessa preda con un orso. Quando infine arrivarono dove il lupo voleva, esso divenne feroce e attaccò il compagno di viaggio, che ebbe molta difficoltà a difendersi come sapeva, ché l'aria era rarefatta e lo spazio per muoversi infimo. Venne morso alla gamba, alla mano, al busto, e notò che le fauci del lupo si serravano quel tanto che bastava a provocare ferite lievi, quasi fosse più interessato al sapore del sangue che alla carne. Pur non capendo come fosse possibile per un animale cieco agire con tanta consapevolezza, lo ferì a sua volta con le mani nude, ma a ogni colpo inferto percepì la natura del predatore cambiare: non soltanto i guaiti di dolore si facevano sempre meno animali e sempre più simili a quelli di Xish, ma anche le apparenze piegarono le forme spigolose del lupo rendendole più aggraziate. A un certo punto, il maschio di Xish si accorse di stare lottando con una creatura pallida che aveva smesso di resistere, e anzi gli rivolgeva sorrisi e altre astute provocazioni. Il combattimento si fece velocemente amplesso e così, finalmente, il destino del maschio di Xish fu compiuto.