mercoledì 28 ottobre 2020

La Fioritura -LVI-

 Il giorno che Nilqa tornò dai suoi fratelli, essi non lo riconobbero. Decrepito era lo straniero ai loro occhi, torto come ramo nodoso e monco a destra. Una schiera di ventisette grigi esseri lo accompagnavano quieti, assuefatti all'obbedienza e sicuri nel passo pur avendo serrate le palpebre. Le generazioni di Tenqar li circondarono e si rivolsero al vecchio, giacché avevano riconosciuto in lui una guida.

"Perché vieni alle nostre dimore?" chiese qualcuno.

"Da quale sangue discendi?" chiesero gli altri, che erano la maggior parte.

Appesantito dalle spalle rigide, consumato in statura dalla pena e dalla deformità, il vecchio poté soltanto alzare lo sguardo verso le voci dei suoi consanguinei. Ne scrutò il vuoto, perché i suoi occhi erano stati spenti dal fuoco di Iskravul. Ma anche senza vederli, li sapeva giovani e forti e per questo li detestò. Il suo risentimento coprì l'ultimo guizzo di intelligenza con un velo che sarebbe da allora divenuto eterno sudario. "Miseri" sibilò "coloro che non riconoscono un fratello. E misero me, che vi conosco oggi"

Allora, mentre lo sconcerto soffiava di bocca in bocca, Nilqa sussurrò qualcosa di losco alle orecchie dei grigi e questi subito si mossero. Come un sol corpo strapparono le teste dai figli di Tenqar, deponendole ai piedi del loro padrone mentre gli altri correvano a chiudersi nelle loro dimore. Non ci fu però rifugio tanto solido da non crollare, porta che non fu sfondata, supplica che venne ascoltata. Legati al sangue con cui erano stati temprati, i grigi portarono l'orrore sulle otto generazioni e la desolazione su ciò che esse avevano costruito. Infine, fedeli al loro mandato, trascinarono Tenqar e il suo maschio ai piedi di Nilqa, preso fino a quel momento dal placido contemplare della sua volontà.

"Cos'altro vuoi che non ti sia già preso?" pianse Tenqar, che parlava a Nilqa ma si rivolgeva agli occhi vitrei dei suoi figli, le cui teste giacevano lì davanti impilate.

"Ho perso quasi tutto e sono il più potente tra i potenti del mondo." rispose Nilqa senza guardarla. "Ho perso quasi tutto, madre."

Tenqar dunque incanalò tutta la contrizione nella pronuncia del più penoso tra gli anatemi. "Perché i sette con cui sei venuto alla luce ora tu li hai distrutti, non sei più Uno di essi, e il nome che ti ho donato, io me lo riprendo."

Dalle labbra secche il vecchio espirò "Uno di sette" e da allora mai più lo disse né lo pensò, e tantomeno avrebbe permesso ad altri di farlo in sua vece. Restituito che ebbe il retaggio a sua madre, diede ordine ai suoi schiavi di uccidere lei e il maschio e quelli eseguirono nella connaturata brutalità, separandoli dalle teste intrise di paura. Così scomparve la genia di Tenqar e con essa la laboriosa fornace che aveva prodotto l'architettura di dimore robuste e tetti impenetrabili, fiore splendido nel giardino di un mondo giovane, ma appesantito e poi soffocato da infida malerba. Quando tutto fu silenzio e i muri delle grandi case scomposti tumuli sulla mattanza, il vecchio sentì farglisi vicino qualcuno, che non poteva essere uno dei suoi schiavi perché essi si muovevano solo quando lui lo comandava. "Cosa pensi?" chiese.

"Questo io lo avevo già visto, quindi vi ho creduto" rispose Ulm'rahktan "ma avendo adesso toccato, non posso dire di aver conosciuto."

Il vecchio ignorò le implicazioni di quei pensieri e disse "Tu e Iskravul mi avete rivelato che avrò discendenza. Mostrami come."

"Allontanati da questo luogo e continua a camminare. Quando sentirai di nuovo la mia voce, sarai arrivato."

L'altro obbedì a malincuore, perché sapeva di non avere scelta, e rimpianse il potere che ancora non possedeva. Si volse e intraprese il viaggio nella maniera in cui il gatto aveva precettato, senza farsi prendere da dubbi o reticenze, seppellendo le domande insieme ai rimorsi e alle memorie.

Lasciato solo all'incombere della notte, Ulm'rahktan produsse col suo canto un velo di pietà e con esso avvolse i corpi e le teste della genia di Tenqar. All'alba, il velo fu lacerato dai becchi di una torma di uccelli dal gracchiare vivace e lo sguardo intelligente, taluni interamente neri, altri invece imbastarditi da una chiazza bianca sul corpo; tutti erano l'incarnazione del momento più caro nella memoria di Ulm'rahktan, quando ovvero Mamath si era fatta corvo. Amandoli come aveva amato lei, insegnò loro il canto e la lingua dei dràna, ma per quanto ci provasse non riuscì a liberarli dall'appetito per il metallo, il cui lucore li attirava tra le macerie. Lasciandoli allora a conciliare la vecchia natura con la nuova, andò col pensiero là dove lui e il vecchio si sarebbero rivisti e in un attimo fu all'ombra del grande albero dai fiori rosa, circondato da altri alberi più bassi e tuttavia imponenti. Questi erano i palazzi del popolo dei Xish, e mentre dall'alto fogliame e dalle fessure nelle cortecce percepiva i loro sguardi più intensamente di uno scroscio di pioggia autunnale, da ponente scorse l'arrivo del vecchio e dei suoi ventisette schiavi.

mercoledì 21 ottobre 2020

La Fioritura -LV-

 Guidati da Iskravul, la cui chioma avvampava senza bruciare, Nilqa e Ulm'rahktan abbandonarono il campo di spighe e percorsero uno stretto corridoio di roccia calcarea costeggiato dal nulla, e al nulla diretto. Nel percorrere l'angusta via, Nilqa ebbe l'occasione per riprendere il controllo dei suoi pensieri e delle sue pulsioni, facendosi di conseguenza più fosco; tutto ciò che sarebbe stato da quel momento in avanti gli divenne chiaro. La risonanza del male appena gemmato rizzò i peli sulla schiena del gatto che lo precedeva innanzi, seguendo l'imperturbabile Iskravul nella tenebra ricacciata dall'avanzare del suo straordinario pallore. A un tratto, il buio si spalancò come una porta e rivelò il mondo che fino ad allora aveva nascosto: una distesa di ruggine e sabbia ospitava monoliti alti fino al cielo, popolato di stelle che avevano la forma e il colore del fogliame boscoso; al limitare di questa terra scorreva il fiume che Nilqa aveva sentito mentre scendeva la montagna, e che ai suoi occhi appariva bianco e denso.

"Cos'è quel fiume?" chiese, ignorato.

Iskravul poggiò un ginocchio in terra, affondò la mano nella sabbia e ne trattenne un pugno. Si avvicinò quindi a uno dei monoliti e lo percosse con la ruggine che aveva sottratto al suolo. A ogni colpo, il monolite si destava come da un sonno, e dalla pietra esalavano respiri incandescenti. Rapito e al contempo sconcertato da questo processo, Nilqa fu dilaniato tra la necessità di sapere e il desiderio di non mescolarsi a quella blasfemia, e dunque passò oltre per avvicinarsi a ciò che in principio aveva attratto i suoi sensi e che continuava a chiamarlo col tuono del proprio corso. Il fiume bianco scorreva con impeto nella valle rugginosa, incanalato verso una meta sconosciuta e tuttavia rispettoso dei suoi argini. Una volta sulla sponda, Nilqa ebbe molta difficoltà ad accovacciarsi per osservare il fiume da più vicino, ché le ossa gemevano ormai come legno marcio. Prima però che il dito avvizzito toccasse la bianca superficie, Ulm'rahktan lo interruppe chiamandolo piano. "Nilqa" disse "perché non credi a ciò che vedi?"

Nilqa annaspò con fatica, senza riuscire a tirarsi su né a chinarsi ulteriormente: "Al vedere, io credo. Al toccare, io conosco."

Allora il gatto inclinò la testa su un lato, osservandolo con stupore verace "Ma tu lo sai, figlio di Tenqar, che questo è latte. Lo riconosci dall'aspetto, lo senti dall'odore, eppure dubiti."

"Cosa c'è di male nel dubbio?" rispose il vecchio, i cui occhi mai abbandonavano il flusso del fiume "dubitare non ruba valore alla materia, ma le restituisce una promessa di prospettiva."

In quell'istante, fu come se tra gli occhi già prodigiosi di Ulm'rahktan se ne fosse aperto un terzo, quello che Mamath aveva fatto nascere e che in seguito alla di lei distruzione si era chiuso. Pur nel desiderio viscerale di rispondere, il gatto scoprì di non poterlo fare, perché il ricordo dell'amore pulsava ancora come carne lacerata e la mestizia gli aveva soffocata la voce. Così si limitò a osservare Nilqa nell'atto di toccare il latte, cosa in cui sarebbe riuscito se qualcos'altro alle loro spalle non si fosse imposto con forza. Prima li toccò una prepotente vampa di calore, poi una luce fredda invase terra e volta celeste rendendole sue pallide propaggini, tanto che financo il fiume latteo cessò di essere il pezzo più brillante di quel luogo. Iskravul aveva fatto del monolite una colonna di fuoco assai alta e vitale, e nel guardarla per il tempo di un battito di ciglia Nilqa aveva già perso parte della propria vista. Coprendosi gli occhi doloranti, si avvicinò al grande fuoco e chiese a Iskravul dove fossero gli schiavi promessi.

Il figlio di Vlada, che nelle iridi aveva sangue e fiamme in egual misura, guardava nel suo abbacinante monumento come Ulm'rahktan nelle tenebre. Prese poi la mano di Nilqa e lo forzò ad avvicinarsi alla luce, senza rispondere o pronunciare formule rituali. Per quanto però Nilqa cercasse di resistere, la sua miseria non gli permetteva di contrapporsi al potere di Iskravul, che senza sforzi gli spinse la mano nella colonna di fuoco. Il vecchio soffrì un tormento più intenso e feroce dello stesso braciere, gridò al cielo, pianse con amarezza e persino arrivò a pregare Iskravul di risparmiargli la pena, ché la ricompensa non ne era all'altezza; ma il figlio di Vlada attese fintanto che doveva, tenendo nel fuoco ciò che restava dell'arto finché non ci fu più nulla da bruciare e Nilqa cadde a terra, con un moncherino carbonizzato al posto del braccio.

La colonna di fuoco arse appagata, soffiando verso le stelle. Iskravul immerse le braccia in essa e dopo aver trovato qualcosa cui aggrapparsi, strattonò con tutta la forza di cui il suo corpo traboccava e dalle fiamme fu così estratto il corpo del primo schiavo. Egli era di un colore esangue, spento come metallo inerte, e gli occhi teneva chiusi perché non aveva ricevuto ordine di aprirli; non portava i segni del fuoco, né sul volto la sofferenza cui il suo padrone era invece soggiogato. Come lui un altro schiavo fu tratto dal fuoco, poi un terzo e altri ancora, e a ogni estrazione la colonna si abbassava e appassiva, diventando una languente brace poco più calda dei corpi che aveva forgiato, ormai moribonda quando l'ultimo degli schiavi fu estratto. Privato della luce delle fiamme, Nilqa si sentì circondato da sagome cui non riusciva a dare contorno né senso, e dunque si rivolse a Ulm'rahktan, che sapeva essergli vicino. "Chi sono questi che mi fissano senza guardarmi? Perché non hanno l'odore dei vivi?"

"Hai ciò che hai chiesto" rispose il gatto, provocando sul viso di Nilqa una contrazione orrenda.

"Perché mi hai ingannato, figlio di Vlada?" gridò Nilqa, deturpato tanto dalla rabbia quando dal dolore "Come farò a ottenere ciò che voglio senza la mia mano forte? E come farò a godere della mia opera, se a causa del tuo sortilegio non vedo più?"

Iskravul, che si era deterso il sudore dalla fronte per la spossatezza della forgiatura, non rivolse sentimento alcuno al povero vecchio che lo aveva apostrofato, ma parlò con la calma che era sua tempra e materiale, come il metallo lo era per le sue opere. "Ti ho dato ventisette schiavi, ognuno di essi dotato di ciò che tu ritieni io ti abbia sottratto. Soltanto la voce ti è necessaria per comandarli e quella la conservi insieme al senno. Tu sei invero la creatura che ha di più, e ti lamenti come se disgrazia fosse tua madre."

A quelle parole il querulante non osò contrapporre fiato: non un'altra lamentela o un doveroso ringraziamento, e nemmeno un commiato. Ordinò ai suoi servi di aiutarlo ad alzarsi e una volta in piedi si rivolse a Ulm'rahktan "Conosci la strada del ritorno?"

"La conosco" disse il gatto.

"Allora sono io a chiederti compagnia, questa volta"

"Segui il corso latteo, ma resisti alla tentazione di bervi." lo avvertì Ulm'rahktan.

A Nilqa quelle parole per una volta bastarono e le portò con sé, mentre il rombo del bianco fiume lo conduceva lontano dal luogo del suo supplizio. Una volta che fu distante, seguito da quelle mute ombre che erano i suoi schiavi, Iskravul si rivolse finalmente a Ulm'rahktan "Se egli possedesse il mondo, o se fosse capace di crearne uno di suo gradimento, poi guarderebbe alle stelle con stupore e invidia, e tutto ciò che fino a quel momento gli ha dato felicità e ricchezza diverrebbe polvere."

Il gatto tacque e Iskravul capì che non aveva nulla da obiettare, perciò continuò "Perché allora lo segui, maestro?"

La risposta di Ulm'rahktan si legò al suono dei passi lontani, restando viva mentre lui si confondeva alla tenebra. "Una promessa di prospettiva"

mercoledì 14 ottobre 2020

La Fioritura -LIV-

 Pur avendo da poco iniziato il viaggio insieme, Nilqa e Ulm'rahktan furono presto soffocati dalla ricchezza che il corpo della montagna ospitava, e che come essa traeva bellezza dalla sua natura immobile. Dapprima, siccome erano ancora alti, passarono tra due feritoie, poste agli opposti lati della scala, che scambiandosi aliti di vento dall'esterno sembravano produrre bassi bisbigli di segretezza. Nilqa cercò di carpirne i segreti, ma per quanto si sforzasse non era capace di tradurre ciò che sentiva, e dunque pur ammirando la perfetta casualità che aveva dato i natali a quel fenomeno, maledisse la volontà che aveva prodotto la luce tenendo all'ombra chi avesse cercato di carpirla. Questo lo fece ad alta voce, lamentandosi col suo silenzioso compagno di viaggio; Ulm'rahktan dal canto suo pensò che soltanto gli esseri incapaci di udire il Coro vedessero caso e volontà non soltanto uniti nel concetto, ma finanche dipendenti l'uno dall'altra, e provò pena per quella sofferenza.

La scala li condusse poi per un largo antro che assorbiva ogni rumore e in cambio dava ineluttabilità, senso di fine, come bocca di feroce creatura. Eppure, sebbene fossero arrivati assai lontani dalla sommità del percorso, dove la luce emanata dal sole di metallo andava spegnendosi, ogni forma aveva superficie visibile e angoli ben delineati. Nilqa ne fu contento, perché la vista gli era debole e i piedi malfermi, ma nell'attimo in cui l'equilibrio mancò strattonandolo verso il buio lato della scala, la mano si poggiò su una parete che fino a quel momento aveva creduto essere il vuoto. Ulm'rahktan notò la sua meraviglia e gli disse che un giorno i suoi discendenti avrebbero lavorato quel materiale, e che ciò li avrebbe arricchiti ed elevati; ma Nilqa capì di non poter aspettare, ché la scoperta doveva essergli subito assecondata e il possesso garantito. Allora Ulm'rahktan lo ammansì rivelandogli che quanto aveva bramato fino a quel momento, dal sole di metallo alle feritoie sussurranti, finanche alla scala declinante al misterioso fondale, erano artefatti il cui creatore giaceva al termine del viaggio. Rinfrancato dalla lieta novella, perché assai più preziosa dei tesori stessi, Nilqa proseguì la discesa senza altra rimostranza proferire, pur lanciando rade occhiate al sole di metallo, come un viaggiatore alla stella di casa, e tenendo la mano nodosa sulla parete che costeggiava la scala, quasi a sincerarsi che non fosse frutto di un'illusione.
Giù per la gola della montagna arrivarono ai suoi tetri intestini, dove il lembo di luce loro anfitrione spirò, lasciando al suo posto l'eco di un rombo gorgogliante e soffocato. Nello sconforto della cecità, Nilqa pretese di sapere da Ulm'rahktan dove si trovassero e cosa fosse quel suono. Essendo incarnazione della notte, il gatto non condivideva il disagio del suo compagno per la tenebra, e disse "C'è un fiume che scorre dietro la roccia e ciò che tu senti è il suo respiro. Serve a condurti dal suo creatore."
Placato il fuoco del tormento, il vecchio però ebbe a fargli notare che il suono non era utile a camminare nel buio, tanto più su una scala.
"Dunque, dopo aver sacrificato la tua giovinezza, il tuo vigore e la tua grazia, camminare al buio ti sembra spaventoso?"
Così rispose Ulm'rahktan e l'altro con saggezza ingoiò la bile. Tenendo le orecchie ben tese al respiro del fiume, discesero la scala senza sapere se all'esterno fosse giorno o notte, senza intuire se gli alberi avessero iniziato a fiorire o ad appassire, perché lì dov'erano tutto era sospeso. Ogni cosa era cristallizzata nella sua propria assenza, eccetto che il suono del fiume, che stava iniziando ad affievolirsi; e tanto meno era ghermito dalle orecchie, quanto più ai viaggiatori si manifestava la fine della scala. Era un pezzo di terra circolare abbracciato dal vuoto, e in esso iniziavano ad affollarsi alte spighe color del sole. Senza sapere se fossero esse stesse fonte di luce, o la traessero da un misterioso dove, Nilqa scoprì che il solo ammirarle aveva lenito i dolori del viaggio e della sua infausta condizione. Poi vide che tra le spighe si aggirava qualcuno, bianco come la neve e dai capelli di un rosso inconfondibile. Subito lo chiamò "Figlio di Vlada!" ed egli si girò, in attesa. Quando Nilqa lo raggiunse e potè guardarlo meglio, vide che anche i suoi occhi erano pregni del color del sangue e ne fu intimidito.
"Invero sono Iskravul, figlio di Vlada"
Il vecchio si profuse in un saluto rispettoso e si presentò come "Figlio di Tenqar, Uno dei sette primogeniti", ma Iskravul non ne fu colpito e disse solamente "Tu sei colui il quale ha camminato sui capelli di mia sorella Zernavul. Gli altri titoli non mi interessano"
Nilqa guardò Ulm'rahktan, fino a quel momento silente e ignorato dal figlio di Vlada, e pretese di sapere come fosse stato possibile creare il sole di metallo, di cosa fosse composta la parete che lo aveva salvato dalla caduta e che cosa fossero quelle spighe luminose in cui erano immersi. Tutto questo voleva conoscere, ma Iskravul gli guardò a fondo negli occhi stanchi e annuì tra sé e sé, trattenendo nel silenzio valutazioni molto severe. Poi rispose.
"Io e te condividiamo un'ascendenza, giacché sono tuo fratello per parte di padre. Quello che io posso creare, tu e i tuoi discendenti potrete farlo con altrettanta perizia"
Nilqa assorbì la rivelazione come acqua che ingloba un sasso in essa caduto: dopo un'increspatura leggera, figlia della sorpresa, la sua ambizione tornò a equilibrarsi prendendo il sopravvento su quanto era rimasto degli altri sentimenti. "Dimmelo, Iskravul"
Il figlio di Vlada si avvicinò al vecchio col suo corpo vigoroso, svettando sulla carne rovinata del suo ospite e nelle iridi sanguigne il risentimento guizzò come scintilla. "Di tutte le cose che chiedi, solo una te ne darò, perché sei mio fratello. Ma essa sia anche il prezzo da pagare affinché io non ti veda mai più, quindi decidi con attenzione la tua prossima richiesta"
Nilqa non ebbe alcun dubbio e chiese chiaramente "Col metallo che io desidero, forgiami una pletora di schiavi obbedienti, perché il metallo da solo può cambiare padrone, ma essi non lo faranno"
Sentita la richiesta, né Ulm'rahktan né Iskravul mostrarono sorpresa alcuna, ma anche allora non si scambiarono sguardi o verbo. Le spighe oscillarono piano, come obbedendo al sospiro che uscì dalle labbra del figlio di Vlada.
"E sia."

mercoledì 7 ottobre 2020

La Fioritura -LIII-

 Fedele alle parole del padre, Nilqa entrò nel territorio della montagna passando dall'arco dei due alberi e verso sera fu al riparo del bosco, attratto come tutte le creature dalla luce lunare emanata dalla pozza d'acqua. Lì la sua sete lo confuse agli altri assetati, e finché essa non fu soddisfatta egli non si vide dissimile dagli ungulati, dai ruminanti e dai rettili ivi concentrati in quieta assemblea, indi si appoggiò contro una quercia e cullato dai versi di tutti quei compagni si abbandonò alla stanchezza.

Si risvegliò che la luna era ancora alta e l'aria ferma, da solo. Dal momento che si sentiva in forze, decise di riprendere il cammino da dove l'aveva interrotto e per questo, come da istruzioni di suo padre, percorse il sentiero tracciato dal rivolo d'acqua che aveva dato corpo alla pozza e che lo avrebbe condotto al ruscello d'origine, alle pendici della montagna. Mentre camminava, qualcosa dietro di lui si mosse, ma credendolo un altro animale assetato non si voltò; allontanarsi dalla pozza fu però un allontanarsi dalla luce, e la sempre più solida tenebra diede potere al rumore. Subdola allora lo assalì la premura di uscire dalla selva, ma più nutriva speranza di esservi prossimo, più fitti i tronchi si facevano attorno a lui e più vicino l'ignoto inseguitore. Questi gli toccò la spalla forzandolo a voltarsi, e fu allora che Nilqa, benché il buio lo portasse prossimo alla cecità, riconobbe il viso di suo padre, paonazzo e deformato dai nervi "Tu non prenderai il metallo!" disse il maschio di Tenqar, colpendolo. La risposta di Nilqa fu vigorosa ma zoppa nella motivazione, ché cercava di difendersi mentre suo padre a ogni piè sospinto tentava di schiacciargli la testa con una grossa pietra, impresa in cui sarebbe certo riuscito, se tanto buio non lo avesse confuso. Nilqa fu lesto nell'approfittarne e fuggì dal bosco, aggrappandosi al solitario raggio di luna disteso in terra a tracciare il sentiero di salvezza; e tanto la luce lo sedusse che anche quando fu al sicuro continuò a scappare, perché il fascio di albedo si era fatto matassa di capelli candidi e calpestarli lo lasciava assuefatto alla speranza di incontrare l'essere cui appartenevano. Il luminoso crine lo condusse al fianco della montagna e poi su per la scala scolpita nella nera roccia verso la vetta, regina immobile tra le stelle. Quando Nilqa calcò la sommità della scalinata, vide di spalle la creatura che svolgendo i suoi capelli di luce lo aveva cavato dal pericolo, e per un attimo credette di aver raggiunto qualcosa il cui valore trascendesse il vile metallo, oggetto della sua ambizione. Nel momento però in cui ella si volse a incrociare il suo sguardo, di colpo non la vide più, in cielo persino la luna lo aveva lasciato, e i piedi ora non calpestavano il candido crine dell'apparizione, ma gelida neve. Nella solitudine più cupa, soppesata dai muti astri, Nilqa si accorse che sulla tenebra vi era una piega rossa e che essa era tanto occhio quanto ferita. Fissandola e facendosi a sua volta fissare, vi si avvicinò a sufficienza da scoprire che essa non era né occhio né piaga, ma crepa nella roccia, e che il suo pulsante riverbero color del sangue era sinistro riflesso di qualcosa che viveva all'interno. Oltre l'anfratto, la luce acquisì corpo e tinse le pareti cesellate da mano esperta, dove in rilievo era scolpita la storia di chi per una donna aveva costruito un talamo, poi una casa e infine un trono, lasciandole il potere e contentandosi del metallo. Nilqa aveva già ascoltato questa storia da suo padre, ma apprenderla dalla pietra lo infuse con la fredda durezza della parete stessa e non più con l'ardore della scoperta, ma con la consapevolezza del calcolo, attraversò il corridoio e poi gli immensi colonnati. Lì la luce rossa si era posata come vivo abbraccio sulla folla di muti pilastri, le cui teste si perdevano però nella tenebra della volta, dove nessuna luce osava spingersi. Nell'attraversare quel luogo, Nilqa subì la moltitudine di sguardi che percepiva in alto e il suo corpo perse forza, i capelli scolorirono e caddero, la pelle si fece sottile e raggrinzita. Quando infine uscì dai colonnati e fu arrivato alla grande sala, Nilqa era decrepito nella forma ma rigido nella saggezza, e grazie a ciò sostenne lo sguardo di chi lo stava fissando dal trono: Vlada era desta, forte e il suo immortale pallore cozzava violento col feroce rosso della chioma, che folta si dipanava in alto, alle spalle e ai suoi fianchi, coprendo il seggio di pietra e la roccia tutta attorno. La Pallida strinse lo sguardo sul visitatore ed egli sentì il sangue agitarsi nelle vene, rimestarsi nel cuore debole, finanche parlargli: "Io non ti ho chiamato".

Allora Nilqa seppe che il sangue era scettro e corona di Vlada, e le rispose senza esitazione nella lingua di Tenqar: "Non tu, ma il metallo."

Le gambe del vecchio persero la poca forza che possedevano e lo costrinsero in ginocchio. "Sei già più ricco di quando sei arrivato, perché chiedi ciò che non ti serve?" gorgogliò il sangue nelle tempie di Nilqa, provocandogli tormento.

Il vecchio rispose: "Decido io ciò che mi serve."

A quel dire, Vlada rilasciò la presa che lo torturava e disteso il braccio indicò la via per un'apertura che aveva creata nei suoi capelli. Nilqa vi passò attraverso senza dire nient'altro e si trovò all'interno di un'ampia sala che nulla aveva in comune col luogo appena lasciato. In alto vi erano le mani che avevano posto in cielo il sole, prigione di X'En, e sia le mani che il sole erano in metallo. Ai suoi piedi si stendeva una scala la cui lunghezza prescipitava giù per l'intera montagna e fin dentro le viscere della terra, là dove la luce emanata dalla rappresentazione del sole non poteva arrivare. Chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a quel percorso, Nilqa discese con pazienza i gradoni.

A un certo punto del percorso, gli parve di sentire una voce rivolgersi a lui, ma nella luce sempre più tenue non vide nessuno e si risolse a credere che fosse colpa della stanchezza. Dopo un po' la discesa si fece lenta, ché gli occhi deboli di Nilqa non vedevano a un palmo dal naso e doveva stare attento a dove metteva i piedi, ma una cosa la videro bene: sullo stesso gradino da cui stava tentando di scendere, Nilqa si accorse esserci un piccolo animale dagli occhi acuti. "Perché non hai risposto quando ti ho chiamato?" chiese il gatto.

"Non ti ho visto" rispose Nilqa.

Ulm'rahktan inclinò la testa "Mi hai sentito"

Il vecchio si fermò per riprendere fiato e per dare sollievo alle gambe doloranti. "Credevo di essere da solo" sospirò flebile. Ulm'rahktan lo fissò a lungo, penetrandolo con l'acume dei suoi occhi così particolari, dal colore placido e immobile, come terra sotto il sole di una ferma calura estiva o come acqua di lago prima dell'arrivo del temporale. 

"Ti sei abbeverato alla pozza insieme agli altri animali, credendo che fra essi non ve ne fossero di interessati alla tua carne; hai camminato sui capelli di Zernavul scambiandoli per i raggi della luna. Infine, hai violato il palazzo di Vlada, nel conforto illusorio di averle ripagato l'ospitalità sacrificando la tua giovinezza. Tu non conosci la solitudine"

Ascoltate le parole del gatto, Nilqa ne rimase turbato e gli chiese cose volesse.

"Voglio compagnia. Anch'io, come te, sto scendendo"