mercoledì 10 giugno 2020

La Semina -XXXVI-

Al principio della sua opera più grande, Indh informò gli altri dràna che non avrebbe avuto bisogno di loro e si diresse in solitudine al centro dell'isola, dove non c'era altro che vita giovane e ancora molto debole. Al suo incedere si levò il ronzio di creature invisibili, soffocate man mano dal gelo che irradiava l'occhio blu dalla pupilla d'argento. Appena le due voci di Indh si accordarono nella nota della plasmazione, tutto il resto tacque e al contempo ogni brano di Materia attorno fu come irretito dal filo di quella nota, mettendosi in moto. Drenate le risore necessarie dall'isola che a quella violenza reagì con gioia selvaggia, perché ogni pianta prosciugata e ogni animale ucciso veniva poi sostituito dalla terra con un esemplare assai più forte, Indh le condensò attorno al calco del ricordo di Shintara: sotto un torso aggraziato cesellò due gambe che lo sorreggessero, poi ricavò braccia e mani dalle spalle delicate; infine, quando venne il turno della testa, il dràna pensò che Shintara non fosse capace di riconoscere la propria immagine, ma la associasse invece a quella di Ulm'andher. Allora raccolse in sé il genio visionario della sua specie e plasmò un volto che non solo somigliasse a quello della Vergine, ma fosse anche unico su Ama Nundra Mun per simmetria e bellezza. Nel momento in cui le ciglia smisero di crescere sulle palpebre chiuse, Indh colse il più bello dei fiori di carne che gli erano sbocciati intorno e lo pose sotto il naso della sua creazione, dandole le labbra.
Alla fine del canto, quando le due voci di Indh tacquero, il risultato di quella sinergia aveva creato l'essere che sarebbe stato capostipite della più alta razza mortale, ed essendo "la prima" di tutte le opere di Indh, il suo creatore la chiamò dunque Mamath. Ma plasmarle un nome si rivelò presto insufficiente a infonderle la vita, e di conseguenza il dràna si risolse a chiamare i suoi fratelli e sorelle per dare forza alla Pronuncia. Fatalmente, nemmeno l'unione di così tante voci riuscì ad aprire gli occhi alla più spenta delle bellezze, e in Indh montò una collera inconsolabile al cui esplodere tutte le presenze su Ama Nundra Mun si piegarono, tranne una. Come rispondendo al richiamo dei disordini che osavano levarsi sul suo quieto giardino, sull'isola si posò un velo di ombra rossa, sorretta al suo zenith, con una tale forza da esserne quasi ferita, dall'altissima sagoma di Ar Tlanèrva. Al suo comparire Indh si affrettò a profondersi in atti di sottomissione e varie giustificazioni, cantando di come la razza dei dràna, nata dalla morte e dalla devastazione della Caduta, fosse incapace di infondere la vita. Sentite queste cose, Ar Tlanèrva si avvicinò a Mamath per poterla osservare meglio e in un attimo capì cosa doveva essere fatto. Si ferì a un dito e la stilla di sangue che ne nacque la lasciò cadere sulla carne inerte, che la assorbì assetata.
Quando gli occhi dell'essere si aprirono, il sole sembrò sorgere in fretta dall'orizzonte a oriente, e tutte le correnti marine cambiarono direzione per infrangersi sui litorali dell'isola. La prima cosa che Mamath vide fu il volto di Ar Tlanèrva e non ne ebbe paura, ma anzi cercò di avvicinarlo ancora un po' alzando e allargando le braccia per accoglierlo. Ma Ar Tlanèrva giudicò che l'opera di Indh fosse compiuta e la sua ombra vermiglia si infilò tra le pieghe del cielo per sparire poco dopo, mentre tutte le cose ripiegavano nel comodo grembo del consueto. I dràna si avvicinarono a Mamath e tentarono di toccarla in ogni modo, di porle delle domande nella lingua di Zatàmana, ma lei non conosceva ancora il linguaggio e non sapeva come interpretare la realtà in cui era appena nata. Di fronte alla sua confusione, Indh la accompagnò fuori dall'isola e le indicò la strada per il mondo. Acconsentendo, e non obbedendo, Mamath mosse i suoi primi passi sul volto di Ama Nundra Mun e da lì ebbe inizio la sua epopea alla ricerca di risposte a domande che non si era ancora posta.

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