mercoledì 13 maggio 2020

Sussurri della Mietitura -XXXII-

Lo scoccare del tendine liberò il maleficio di cui era intriso e lo fece sfrecciare invisibile verso l'inerme Sei Ali.
Questi ne fu pervaso più che colpito, perché la voce che Shintara aveva sentito al momento dell'attacco ora si diffondeva come un morbo nel corpo di Rasseth, corrodendone la luce. La voce lo convinse che tutto era perduto perché niente era mai stato in suo possesso, né la sua esistenza, né tantomeno le ali di cui tanto andava fiero; lo informò sul destino degli Us'fulum e su cosa sarebbe successo da quel momento in avanti, fino ai tempi lontanissimi della fine di ogni cosa. Rasseth perse il senno cercando di mantenerlo, e urlando ai cieli stellati emise la sua ultima luce, precipitando infine sulla terra che aveva corrotto senza mai toccarla. Vedendolo sconfitto ma ancora lamentoso, umiliato ma energico nell'esercizio della follia con cui l'arco l'aveva trapassato, Shintara afferrò le sue ali e una dopo l'altra gliele strappò dal corpo; Rasseth spirò prima ancora che una sola goccia di Nuharon toccasse il suolo. Così finiva l'odioso regno dei Triarchi, e con essi i miasmi di fuoco che originandosi dalla Caduta si erano propagati come pustole sul volto di Ama Nundra Mun, rendendo decrepito ciò che era nato bello sopra ogni altro esemplare di Materia nel cosmo, spargendo una luce di morte nella notte che i Gemelli rendevano eterna con la loro lotta.
Shintara prese le ali di Rasseth e ne fece una grande rete, poi con essa e il resto delle sue armi raggiunse la vetta da cui Indh aveva sfidato gli Eterni. Da lì si rivolse ai vuoti esibendo i suoi trofei: mostrò il possente Gargalos, nato dalle ossa di Lhe e ora ridotto a scudo della Vergine; mostrò l'arco fabbricato col corpo di Hieralw, che in principio fu nervo del primo fra gli Eterni; infine sollevò l'ultima delle sue armi, la rete costruita con le ali di Rasseth, che del Triarca erano state forza e orgoglio, e prima ancora come pelle avevano protetto la carne di Lhé. Allora dallo stomaco del cosmo si levò un'aura torrida e poi una luce, prima discreta e innocua come una delle stelle che le brillavano intorno, poi più grande e nitida, e il suo colore non poteva ingannare Shintara perché lei più di tutti, più di Drà e dei suoi figli, aveva imparato a odiare il fuoco. Dopo aver estinto la luce degli Xenwa, era tempo di affrontare il loro ascendente e dunque mondare per sempre l'esistenza da coloro che minacciavano l'Abbraccio.
Si sollevò lungo il monte il sussurro cui Shintara era più affezionata, e quando infine la raggiunse sulla vetta lei si decise ad ascoltarlo: dal profondo degli abissi neri che l'avevano istruita, fino alle creste bianche delle onde irrequiete, Tlaotlican le offrì aiuto. Le parlò con la pazienza di un padre, mentre X'En nel suo avvicinamento si faceva sempre più grande e già gli alberi e i prati del Letto della Vergine iniziavano a soffrirne.
Per Shintara fu come se l'acqua avesse pulito lo strato di rabbia e ferocia che la opprimevano, e improvvisamente le vennero a mancare le forze. Cadde in ginocchio, distolse lo sguardo dal fuoco che aveva invaso tutto il firmamento, e pianse. Le lacrime caddero dalla vetta del monte, scavarono un solco nella roccia e si mischiarono al mare cui appartenevano. Tlaotlican ebbe così la sua risposta, e innumerevoli spire di azzurra acqua presero la via del cielo per farsi lance della terra.

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